La Fonte della Noce
(da IL FUOCO DEI SALAMITA di Elso Simone Serpentini, Demian Edizioni, pp. 26-34 )

 

[...]

     A cena, la sera, fra le altre vivande imbandite, c'era un'insalata di tenerissime cime di lattughe crespe. La Regina Madre si meravigliò della loro freschezza, perché sapeva che fin dall'aprile la stagione era stata assai secca e in tutti gli orti che non si erano potuti irrigare, come nella maggior parte di quelli di Napoli, le verdure erano tutte riarse e consumate. La Regina volle sapere il nome di quelle tenerissime cime di lattughe crespe così fresche e la loro provenienza.

     - Maestà - le rispose Nochicchia - noi teramani le chiamiamo mortarole. E provengono da una contrada che si trova a circa mezzo miglio dalla cinta muraria, che noi chiamiamo Acquaviva. Essendo alla confluenza dei nostri due fiumi, il Tordino e il Vezzola, gli orti sono lì assai irrigui e la verdura è assai fresca in ogni stagione.

     La Regina vantò la bontà e la freschezza dell'insalata, che gradì molto, poi, quando seppe che la contrada chiamata Acquaviva si trovava a breve distanza dalla Chiesa di Santa Maria delle Grazie, in cui lei e sua figlia si erano trattenute in preghiera, espresse il desiderio di visitarla l'indomani, quando sarebbe tornata in quella Chiesa per recitare nuove orazioni.

     - Sarà fatto - rispose Nochicchia. - E le vostre Maestà gradiranno molto, in questo mese di giugno che è così tanto caldo, la frescura e l'ombra di quei luoghi.

     Quella notte, al termine della cena e degli altri onori resi alle due Regine, Nochicchia volle personalmente accertarsi che tutto quanto aveva ordinato fosse eseguito a puntino dagli ortolani, a cui erano state date precise indicazioni. Avrebbero dovuto irrigare con la maggior quantità d'acqua possibile, prelevandola dal fiume Tordino e dal fiume Vezzola, tutti i rigagnoli che correvano tra gli orti dell'Acquaviva. Fu dato anche l'ordine di aggiustare le strade che vi portavano dalla città e che correvano lungo gli argini e davanti al Casino del Vescovo, come veniva chiamata una casa di campagna nella quale il Vescovo era solito trascorrere parte dei periodi più caldi dell'anno.

     Per tutto il giorno seguente la città proseguì i festeggiamenti, ma fu consentito alle due Regine di riposarsi dalla fatica del viaggio da Penne a Teramo senza incombenze relative a visite e ricevimenti ufficiali. Poi, quando giunse la sera, il Corteo reginale si avviò lentamente, con le lettighe delle Sovrane trasportate da muli, verso la contrada Acquaviva. La Corte al seguito procedeva parte a piedi e parte a cavallo, con in testa il cavallo bianco montato da Don Alfonso Castriota, ma poi potettero avanzare fin quasi fino alla confluenza dei due fiumi anche i cocchi, perché i lavori eseguiti in gran fretta durante la notte e in quella stessa mattina, erano consistiti anche nell'allargamento delle strade.

     Arrivato che fu il Corteo fin sull'argine del fiume Tordino, la Regina Madre smontò di lettiga, così come sua figlia, e si avvicinò al corso d'acqua, che era chiaro e limpidissimo. Vi immerse le mani un paio di volte, portandosele poi al volto, per rinfrescarsi dal caldo che era ancora opprimente. Lo stesso fece sua figlia e poi le altre dame al seguito, tra cui la sorella di Don Alfonso, che si chiamava anch'essa Giovanna, così che non mancò chi scherzasse, con amorevolezza, sul fatto che nell'acqua chiara dell'Acquaviva si stessero rinfrescando tre Giovanne. Poi le donzelle al seguito delle Regine e alcune dame di corte si fecero più audaci e, soprattutto le più giovani, entrarono con i piedi scalzi nell'acqua, che era bassa ai bordi, e presero a zampettare e a schizzarsi addosso dei piccoli spruzzi d'acqua, sia per rinfrescarsi reciprocamente sia per scherzare e motteggiare. Sì che l'aria risuonò dei loro allegri gridolini, mentre tutt'intorno verdeggiavano piante e ortaggi di ogni tipo. I giovani cortigiani e i servitori non si avvicinarono all'acqua, preferendo dilettarsi nel cogliere qua e là dei frutti che pendevano dai rami di alcuni alberi di prugne e di ciliegie visciole, non disdegnando nemmeno quelle ancora immature e pertanto acidule e asprette al sapore.

     Le Regine, con il loro seguito, si fermarono per quasi due ore e sembrava che non volessero mai distaccarsi da quell'incantevole luogo, che tanto avevano mostrato di gradire. Ma, cominciando a farsi buio, rimontarono sulle lettighe e si avviarono verso la Chiesa di Santa Maria delle Grazie, dove si sarebbero ancora trattenute in preghiera per qualche breve tempo.

     Quando però, imboccata la stradina che vi conduceva dall'Acquaviva, ebbero oltrepassato da poco il Casino del Vescovo, si trovarono improvvisamente di fronte ad un luogo che le riempì di ammirazione per la bellezza e per l'amenità del paesaggio. La Regina Madre volle scendere dalla lettiga e chiese che posto fosse quello, che era ancora più bello dell'Acquaviva e che sembrava il Paradiso in terra.

     - Maestà - le disse Nochicchia, che le era stato a fianco per tutto il tempo e lo era anche in quel momento - noi teramani chiamiamo questo luogo Fonte della Noce, per via di quella noce secolare, che facendole ombra, sovrasta quella fonte, da cui sgorga l'acqua più fresca, più pura e più piacevole al palato di quante, pur buone, ne abbiamo in questa nostra città.

     La Regina volle assaggiare l'acqua della Fonte e, allontanando con un gesto della mano una brocca che le porgeva una sua donzella, si abbeverò direttamente ad una delle canne che adducevano l'acqua ad una piccola vasca, la quale, dopo averla raccolta, la disperdeva per via di zampilli sempre più piccoli, lungo un canale in leggera pendenza, verso luoghi che risultavano inaccessibili, quanto invisibili, per la folta verzura che copriva i luoghi. C'era, di fronte alla Fonte, uno spazio non grande, ma sufficiente per dare alla Regina un'idea che tradusse in desiderio.

     - Mi piacerebbe - disse a Nochicchia - che in questo spiazzo, davanti a questa Fonte, si apparecchiasse domani sera la cena.

     - Saremo lieti di realizzare il vostro desiderio, Maestà - rispose Nochicchia, lieto di poter accontentare la Regina, anche se un po' preoccupato all'idea che nemmeno quella notte, come la notte precedente, avrebbe dormito.     

     Infatti, così come la notte precedente era stato sveglio per tutto il tempo a sorvegliare i lavori per abbellire l'Acquaviva, quella notte

la trascorse insonne a sorvegliare i lavori di abbellimento della Fonte della Noce e di tutta la zona circostante. Tutti gli altri ufficiali del Reggimento, i sindaci, i Magistrati e solerti cittadini si diedero molto da fare per organizzare una cena sontuosa all'ombra delle piante che, oltre alla grande noce, rendevano il luogo lussureggiante di verde brillante e intenso. Ma Nochicchia ordinò che fossero sistemati tutt'intorno altri alberi, spiantati altrove e ripiantati in quel luogo, per accrescere l'ombra e l'incanto di un già tanto piacevole sito, posto proprio sotto le mura della città, che sovrastavano in alto. In poche ore fu sistemato, tutt'intorno allo spiazzo dove si sarebbe svolta la cena, un vero e proprio boschetto, di alberi di ogni tipo, ma tutti adatti a fare molta ombra, per lo più alami bianchi. Sulla destra della Fonte, Nochicchia ne fece sistemare un'altra, posticcia, costruita a bella posta, con l'acqua che scorreva da un pertugio a forma di mulino, tutta coperta di verzure. L'acqua, dopo aver percorso un breve tratto, veniva costretta in un cannello più stretto, che la faceva zampillare molto in alto e poi ricadere a poca distanza, proprio ad un metro dal centro dello spiazzo, dove venne istallata la mensa. In quello spiazzo, che rimase conchiuso dal boschetto che era stato impiantato, entravano con una certa comodità una diecina di persone, tante quante sarebbero state a cena, alla quale avrebbero partecipato solo gli intimi delle due Regine.

     Nochicchia, che portò l'intero carico dell'allestimento, essendo particolarmente esperto di cerimonie e festeggiamenti, fece sistemare al di là del boschetto, nascosti alla vista, dei musici, che avrebbero allietato la cena per tutta la sua durata. Ma il capolavoro di cui Nochicchia si rese artefice, e fu una sua pensata dell'ultimo momento, fu il far sistemare, accanto alla fontana posticcia che portava l'acqua proprio accanto alla mensa, un'altra fontana, pure artificiale, da cui zampillava vino rosso, prelevato da una serie di tini, posti a cascata l'uno sull'altro, sì che, finito il vino del primo tino, cominciava ad affluire quello del secondo.

     Si ebbero così, proprio accanto alla mensa, due cannule, una di fronte all'altra: da una sgorgava acqua fresca in continuazione, dall'altra vino. Fu poi fatto impiantare un altro boschetto, tra la fonte e le mura della città, su una piccola altura che vi si trovava. Fatti gli ultimi preparativi e giunta l'ora stabilita per la cena, arrivò in lettiga, portata a mano da quattro servitori, la Regina Madre, seguita, sempre in lettiga, dalla figlia. Giunse a piedi, scortata da due donzelle, che poi si allontanarono, Giovanna Castriota, e a piedi, tutto impettito nella sua veste elegante, suo fratello Don Alfonso. Mentre gli altri erano già a tavola, giunse e si sedette accanto a Don Alfonso la sua giovane favorita, Giulia de Gaeta. All'altro lato della mensa sedettero Giovanni Antonio Nochicchia e il Cancelliere Angelo del Monte, che ebbero al loro fianco la principale dama di corte della Regina, un alto dignitario della Corte e sua moglie.

     Seduti a mensa erano complessivamente in dieci, con il maggiordomo della Corte che assisteva alla somministrazione delle vivande e delle bevande, tutte assai sontuose. La cena durò un paio di ore e per tutto il tempo i musici nascosti dietro l'orlatura del boschetto suonarono musiche dolcissime e intonarono canti altrettanto piacevoli. Di tanto in tanto, i musici cessavano di suonare e, per due volte, in pause della cena, uscirono dal boschetto che sovrastava la fonte, dodici giovanetti, che danzarono con incantevole grazia. La prima volta erano vestiti alla moresca ed eseguirono una danza della stessa foggia. La seconda volta uscirono vestiti e pettinati da donne e la loro danza fu leggiadra ed eterea.

     Le due Regine erano visibilmente compiaciute, quanto sorprese, davanti a questa accoglienza e divertite dai suoni, dai canti e dalle danze, allietate dalla freschezza del sito, in una sera che, senza quel particolare allestimento, sarebbe risultata assai calda. Ancora una volta si ebbe l'impressione che, così come era avvenuto la sera prima quando si erano trovate all'Acquaviva, alle due Regine dispiacesse partirsi da un luogo così incantevole. Infatti restarono fin sul far della notte e rimasero ancora una volta sorprese quando, per vincere le ombre, furono accese le luminarie fatte predisporre da Nochicchia, che non aveva tralasciato alcun particolare.

     Per tutta la durata della cena la Regina non fece altro che compiacersi di tanta benevola accoglienza dei teramani e pregò Nochicchia e il Cancelliere di ringraziare a suo nome tutti i cittadini di Teramo, assicurando che non avrebbe mai dimenticato quelle due serate così piacevolmente trascorse nella loro città.

[...]

 

* IL FUOCO DEI SALAMITA, di Elso Simone Serpentini, vol. 3 della collana "Briganti d'Abruzzo". 

Vedi la splendida tavola di Romolo Bosi sulla cena della Fonte della Noce.

 

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