Quelle drammatiche estati a Castagneto (I processi Caridi e Di Biagio 1908-1911)
La Corte
La morte
di un padre Da
quando era morto suo padre Vincenzo, per Giuseppe Caridi la vita era
cambiata. Era partito per l’America, appena diciassettenne, proprio
per raggiungerlo a New York, dove suo padre gli aveva trovato un
posto di lavoro. Aveva lasciato la famiglia, sua madre, sua sorella
Giovannina, appena dodicenne, suo fratello Giovanni, di due anni più
giovane di lui, e si era imbarcato a Napoli il 17 marzo 1898, sul
piroscafo "Spartan Prince". Aveva con sé poco più dei vestiti
che indossava. Molti altri in paese, Gallico Marina, in provincia di
Reggio Calabria, erano partiti prima di lui e molti altri partirono
dopo, per sfuggire alla fame e alla miseria. Due anni dopo era
partito anche Giovanni, che aveva così raggiunto lui e suo padre.
Avevano tutti e tre un buon lavoro nella stessa fabbrica meccanica e
guadagnavano abbastanza da poter spedire a casa periodicamente buone
somme di denaro alla madre e alla sorella Giovannina, restate sole e
senz’altro reddito. Ne aveva messo anche in una banca, accumulando
un piccolo gruzzolo che avrebbe riportato in Italia imbarcandosi per
il ritorno. Il pensiero di tornare
a casa non aveva mai abbandonato né Giuseppe né Giovanni né il padre
Vincenzo. Non avevano alcuna intenzione di rimanere in America, al
contrario di molti compaesani che si erano trovati troppo bene nel
nuovo mondo per rinunciare agli agi e
ai comodi conquistati con tanta fatica. Non facevano altro che
chiamare altri componenti della famiglia e perfino parenti anche
lontani, magnificando le nuove condizioni di vita, tanto diverse da
quelle del loro piccolo borgo in riva al mare, dove i frutti della
pesca erano pochi e miseri.
Giuseppe e Giovanni erano diventati uomini a New York, accanto al
padre, del quale avevano accettato ogni consiglio e al quale erano
stati sempre molto legati. Insieme, la sera, dopo una giornata di
duro lavoro, pensavano al paese lontano, al mare, alla famiglia, al
giorno in cui si sarebbero imbarcati per tornare a casa, finalmente.
Ma era destino che Vincenzo Caridi a casa non ci tornasse più. Una
mattina, suo figlio Giuseppe, visto che non si alzava dal letto per
andare a lavorare, si meravigliò, perché solitamente si destava
prima di lui. Lo scosse e vide che non reagiva, lo scosse ancora, lo
toccò, sentì che era freddo e capì che suo padre era morto. Al suo
funerale c’erano solo i figli, Giuseppe e Giovanni, e alcuni
colleghi di lavoro, calabresi anche loro. Riportare la salma in
Italia era troppo costoso e complicato, così il corpo di Vincenzo
rimase a New York, nel cimitero dove i suoi figli andavano a
trovarlo ogni settimana, la domenica mattina, approfittando del
giorno di riposo. Fu
doloroso per Giuseppe e Giovanni scrivere una lettera a casa per
avvertire la famiglia della morte del padre e ancora più doloroso fu
ricevere un mese dopo una lettera da Gallico Marina, in cui la madre
aveva fatto scrivere dal prete alcune righe nelle quali trasparivano
un grande dolore e una profonda angoscia, nonostante qualche
espressione di maniera usata da chi le aveva scritte materialmente. La
morte di un padre è sempre un evento tragico e per la famiglia
Caridi lo fu ancora di più. Venuto meno il capofamiglia, il punto di
riferimento fu per tutti Giuseppe, gravato di responsabilità di gran
lunga superiori alle sue forze e alla sua giovane età. Ora
economicamente sua madre e sua sorella dipendevano da lui e da
Giovanni e dal denaro che riuscivano a spedire dall’America, i
risparmi che riuscivano ad accumulare, ora solamente in due, con
incredibili rinunce e conducendo una vita assai grama, in una
metropoli che avrebbe potuto offrire quanto c’era di meglio ad un
giovane che avesse la possibilità di approfittarne.
Ma il pensiero di Giuseppe era costantemente rivolto a sua madre, a
sua sorella Giovannina, alla dote che toccava a lui mettere insieme
in vista di un suo eventuale matrimonio. Quanto al suo, di
matrimonio, Giuseppe non ci pensava. Prima doveva sistemare
Giovannina, poi avrebbe pensato per sé. Non avrebbe certamente
sposato un’italiana d’America, che avrebbe avuto senz’altro troppe
pretese. Si sarebbe accontentato di una calabrese del suo paese,
anzi l’avrebbe preferita, se al suo ritorno definitivo in patria ne
avesse trovata una adatta e non compromessa.
Gli anni passarono e il denaro che Giuseppe e Giovanni riuscivano a
mandare a casa ebbe un flusso costante, ma non certamente pingue, e
quello che riuscivano ad accumulare nella banca americana non era
mai abbastanza da poter pensare a programmare il ritorno. Così non
restava che lavorare, lavorare e lavorare, senza avere grilli per la
testa, e non vivendo per altro che per il lavoro. Di positivo ci fu
che in America Giuseppe e Giovanni impararono a leggere e scrivere,
cosa che non avevano fatto fino a quando erano restati in Italia.
Erano così in grado di leggere personalmente le lettere che
arrivavano, adesso non più scritte dal prete, ma da Giovannina, che,
su loro insistenza, aveva imparato anche lei a leggere e scrivere.
* Riportiamo l'incipit del libro, volume n. 34 della Collana "Processi celebri teramani". |