Il morto di Colle Merlo
(Il processo Angelozzi - 1925)

La Corte
Processi celebri teramani
Collana a cura di Elso Simone Serpentini

 
 

Martedì 22 settembre 1925

 

    Martedì 22 settembre 1925, alle 18 in punto, nella stazione dei carabinieri di Teramo squillò il telefono.

    Rispose l'appuntato Antronio Silvestri.

    - Pronto, carabinieri.

   - Pronto - rispose la voce di un uomo. - Sono il titolare dell'ufficio postale di Miano. Devo avvertirvi che qui, a non molta distanza dal paese, vicino al cimitero, è stato trovato un morto.

    - Come è morto?

    - Non si sa.

    - Sapete dire di chi si tratta?

   - Si chiama Giosaffatte Angelozzi.

   - Quanti anni ha?

   - Di preciso non lo so. E' un contadino.

   - In quale località si trova il cadavere?

   - A Colle Merlo, vicino al cimitero. Il corpo si trova in una "ripa", profonda una trentina di metri.

   - Allora è possibile che l'uomo è caduto dentro ed è morto.

   - E' possibile. Però è meglio che venite il prima possibile.

   - Sì, arriviamo subito. Aspettateci di fronte all'ufficio postale, così ci accompagnate sul posto.

   - Non occorre che arrivate davanti all'ufficio postale. Il posto si trova vicino al cimitero. Venendo da Teramo, prima di arrivare a Miano. Non potete sbagliare, perché si è radunata molta gente del paese. Io vi aspetto davanti al cimitero.

   Un'ora e mezza dopo, verso le 19,30, il vice brigadiere dei carabinieri Giovanni Giusti e l'appuntato Antonio Pavanello arrivarono a cavallo davanti al cimitero e trovarono ad aspettarli il titolare dell'ufficio postale, che li accompagnò attraverso la campagna sul luogo dove si trovava il cadavere. C'era un bel po' di gente, che si interrogava su che cosa potesse essere successo.

   Era stata una disgrazie, come diceva qualcuno? Era anche possibile. Poteva essere che Giosaffatte Angelozzi fosse scivolato nel burrone e fosse rimasto mortalmente ferito. Era anche possibile, però, come dicevano altri, che fosse stato ucciso e qualcuno lo avesse buttato giù. Così come era anche possibile che si fosse suicidato. Forse era sceso in fondo alla "ripa", come la chiamava la gente del posto, e si era tagliato la gola con il rasoio che qualcuno, che si era calato giù, aveva scorto sul bordo del dirupo e poi era caduto giù.

   Il vice brigadiere Giusti scese giù anche lui e, pur a fatica, perché ormai era quasi completamente buio, al debole chiarore di una torcia improvvisata, constatò che il morto, che giaceva bocconi, era completamente vestito. Presentava una grave ferita di taglio alla testa. Il rasoio di cui gli aveva parlato la gente appena era arrivato si trovava, effettivamente aperto, a circa cinquanta centimetri di distanza dai piedi del morto. Aveva il manico scuro. A distanza ancora più breve si trovava anche un cappello color caffè, con le falde rivolte verso terra.

   La "ripa" era un fosso formato in passato dallo scorrere di un corso d'acqua che adesso non esisteva più e aveva una parete più alta e una più bassa. Il vice brigadiere osservò attentamente quella più alta, alla ricerca di eventuali tracce di uno scivolamento o di una caduta, ma, ammesso che ci fossero, era troppo buio per individuarle. Si vedeva, però, che la terra era molto friabile e poteva giustificare l'ipotesi di una caduta accidentale, con la quale contrastava però quel rasoio aperto. Era impossibile che l'uomo lo avesse in tasca e si fosse aperto nella caduta. Era più probabile che potesse essersi colpito col rasoio sul bordo del dirupo e poi fosse caduto sul fondo o che fosse sceso volontariamente e si fosse mortalmente ferito. Ma l'assenza di una grande quantità di sangue sparso sul terreno faceva escludere che si fosse ucciso o fosse stato ucciso sul posto.

   Se si trattava di un omicidio, quasi certamente era avvenuto altrove e successivamente il corpo era stato buttato in fondo al burrone.

 

La moglie del morto

 

   Il vice brigadiere Giusti faticò non poco a risalire sul ciglio del dirupo, avendo dovuto rinunciare al tentativo di arrampicarsi sulla parete più alta ed essendo stato costretto a fare un lungo giro, dopo essere salito su quella più basse, per portarsi su un pianoro in leggero declivio che sovrastava il fosso.

   Chiese se in mezzo a quella gente che si era radunata e si domandava che cosa potesse essere accaduto ci fossero dei famigliari del morto. Gli fu indicata una donna di mezza età, che aveva un fazzolettone in testa e un altro sugli occhi, come per asciugarsi le lacrime, che però non si vedevano. Accanto a lei c'erano due donne più giovani, che la sorreggevano, come se temessero che potesse venir meno da un momento all'altro.

   - Io sono la moglie - disse la donna - e queste sono le mie figlie.

   - Come vi chiamate? - chiese il vice brigadierew.

   - Maria Domenica Di Giorgio.

   - E le vostre figlie come si chiamano?

   - Francesca e Aldina.

   - Dove si trova la vostra abitazione?

   - Là - rispose la donna, indicando con la mano un luogo che però non risultava visibile per il buio quasi totale.

 


 

* Riportiamo l'incipit del libro, volume n. 22 della Collana "Processi celebri teramani". 

 

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