Quattro colpi alla schiena
(Il processo Rina Cosmi  - 1948)

La Corte
Processi celebri teramani
Collana a cura di Elso Simone Serpentini
 
 

Giovedì 8 maggio 1947, ore 11.

 Quella mattina in Questura non c'era nessuno, o quasi. I pochi agenti in servizio, appena arrivati in ufficio, s'erano messi ognuno nella propria stanza a lavorare. Alcuni erano malati e non erano venuti; altri erano usciti per servizio, altri ancora erano andati a prendere un caffè. Il Questore non era ancora arrivato e anche di superiori se ne erano visti pochi. Il Brigadiere Sannicandro si chiese dove fossero finiti tutti, perché ci fosse quell'inconsueto silenzio nei corridoi.
 Faceva già abbastanza caldo e la primavera sembrava confermare quanto di buono aveva promesso in aprile. Quando vide il Commissario Capo Ercole Suppa entrare dal portone e salire lungo le scale con il suo solito passo stanco e arrancante, il Brigadiere guardò l'orologio. Erano le 11 precise. Una giornata calma, anzi, più che calma. Non era arrivato nemmeno il Vice-Commissario aggiunto Favazza. Era proprio vero che Teramo era una città tranquilla, altro che le Questure dove era stato in precedenza, nel meridione, sempre molto agitate.
 Il Brigadiere Sannicandro si trovava proprio ai piedi della scalinata che portava ai piani superiori, nell'atrio, al quale si accedeva subito dopo aver varcato il portone d'ingresso della Questura. Non era la prima volta che lo lasciavano solo di guardia al portone. Ma la cosa continuava a non piacergli. Gli dava un  senso di desolazione. Rientrò per un attimo nella stanza di prima accoglienza, la cui porta si trovava alla sinistra di chi saliva le scale, si sedette alla scrivania e restò pensoso per qualche minuto.
 In seguito, a chi glielo chiese, non seppe precisare che cosa avesse fatto di preciso. Ricordava che era tornato ad alzarsi un paio di volte, tornando nell'atrio e dacendo qualche passo, intorno, senza avvicinarsi al portone. Solo un paio di volte aveva dato uno sguardo fuori, in strada, ma senza veder passare nessuno. Ricordava anche che, guardando l'orologio (erano le 11 e 2 minuti), aveva pensato al Commissario Suppa, che adesso doveva trovarsi seduto alla sua scrivania, al piamo di sopra. Ora certamente stava sfogliando il giornale, o forse aveva già iniziato a scorrere il sempre il sempre scarno mattinale.
 All'improvviso, il Brigadiere Sannicandro, che era ancora nell'atrio, ebbe l'impressione che sul portone di ingresso della Questura ci fosse una persona, poco più che un'ombra. Mise  meglio a fuoco lo sguardo e notò che l'ombra si materializzava, rivelandosi come la presenza, inquietante, di un giovane, con i vestiti in disordine, i capelli arruffati, e lo sguardo allucinato. Era senza fiato, come se avesse corso molto. Sembrava anche, affannato com'era, incapace di parlare.
 Il Brigadiere lo scrutò meglio e vide che le mani gli tremavano, ma anche, ed ebbe un brivido, che esse erano tutte insanguinate.
 - Che è successo ? - gli chiese, levandosi in piedi.
 Il giovane parlò a fatica, con voce rauca, tanto rauca che faceva impressione. Disse una parola che il Brigadiere non comprese subito, tanto era sorpreso e tanto la voce del giovane, dell'apparente età di 20 anni, era strana e roca. Il giovane era veramente stravolto.
 - Che dici ? - chiese ancora il Brigadiere.
 Questa volta la parola che il giovane ripeteva, agitandosi sempre di più, sembrava più comprensibile.

"Rina ! Rina ! La mia Rina !"

 - Rina ! - diceva il giovane - Rina ! La mia Rina!
 - Che è successo ? - chiese il Brigadiere Sannicandro. - Che ha fatto questa Rina ?
 - L'ho uccisa ! L'ho uccisa ! -
 Le mani gli tremavano ancora di più ora e il viso era stravolto.
 - L'ho uccisa. Sotto al ponte di Mezzanotte.
 - Come l'hai uccisa ?
 - L'ho pugnalata.
 Il Brigadiere Sannicandro guardò quelle mani insanguinate, quel viso sconvolto, quello sguardo allucinato e comprese che chi stava confessando un delitto non mentiva. Non poteva mentire. Salì di corsa le scale e si precipitò nell'ufficio del Commissario Suppa, dove entrò di corsa, senza bussare.
 - Commissà, venite, presto. C'è uno che dice di avere ucciso una donna.
 Il Commissario Suppa si precipitò giù per le scale, precedendo il Brigadiere, e si trovò davanti a colui che diceva di essere un as-sassino.
 - Adesso calmati ! Calmati ! - disse il Commissario rivolto al giovane - Intanto dimmi come ti chiami.
 - Sono Ferrini Paolo.
 - Calmati ! Dicci con calma quello che è successo.
 - Ho ucciso Rina, sotto al Ponte di Mezzanotte. L'ho pugnalata. Ma correte ! Correte ! Forse è ancora viva. Forse la si può salvare.
 - Quanto tempo fa è accaduto il fatto ? - chiese il Commissario Suppa.
 - Poco fa. Appena è accaduto, sono corso qua in Questura. Là sta, per terra, nel fosso, sotto il Ponte di Mezzanotte. Ma andate subito, forse è ancora viva.
 Proprio in quel momento stava entrando in questura il Vice Commissario aggiunto Ugo Favazza, che fu subito informato di  quello che stava avvenendo. In quella calma, tranquilla mattinata di primo maggio, nella più che tranquilla città di Teramo, in una Questura quasi deserta, un giovane, stravolto e con le mani ancora insanguinate, stava confessando di avere appena pugnalato una donna, forse mortalmente.
 - Ma chi è questa Rina ? - chiese il Vice Commissario Favazza.
 - La mia fidanzata - rispose il giovane. che disse di chiamarsi Ferrini Paolo, di Pietro, e di Magnarelli Francesca, nato a Campli il 1° gennaio 1928, sarto, residente a Teramo, in Via Crispi, 109.
 

* Riportiamo l'incipit del libro, volume n. 12 della Collana "Processi celebri teramani". 

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