Il delitto del due luglio (Il processo Di Battista Rodi - 1956)
La Corte
Lunedì 2
luglio 1956: ore 5.
Quella mattina Elisabetta Michini si svegliò assai presto, mezz’ora
prima del solito. In casa dormivano ancora tutti e in paese, a
Scapriano, una frazione situata a poco più di tre chilometri da
Teramo, si vedeva solo qualche luce accesa in poche case. Erano le
prime luci dell’alba, quasi ancora notte. La giovane seppe l’ora
precisa quando, dopo aver finito di vestirsi, andò in cucina per
fare colazione e diede uno sguardo all’orologio che pendeva sul muro
accanto al camino. Erano le cinque.
Dopo aver mangiato un paio dei biscotti fatti dalla nonna, tornò in
camera da letto per mettersi le scarpe buone e vide che Maria, sua
sorella, di un paio di anni più giovane di lei, dormiva ancora. Fece
piano per non svegliarla. Andò nella stalla, munse un paio di
vacche, di quelle più prolifiche, si caricò sulle spalle il
bidoncino di cinque litri quasi tutto pieno di latte, e uscì,
incamminandosi verso Teramo. Era lunedì 2 luglio 1956, cominciava
un’altra settimana. Come ogni mattina, avrebbe fatto il giro delle
case dove gli abituali clienti avrebbero aperto la porta e,
sorridendo, le avrebbero porto la tazza, la scodella o la bottiglia
dove lei avrebbe versato il latte che portava, ancora caldo e
schiumoso, nel suo contenitore. Erano le
6,30 quando Elisabetta, nel corso del suo giro di clienti,
provenendo da via Duca D’Aosta, imboccò Corso San Giorgio, passando
davanti al Bar Aquila d’Oro, al quale ogni mattina portava portava
il latte, e incontrò Romolo Di Battista, soprannominato "lu rosce".
Da quando lo aveva conosciuto, nell’estate dell’anno prima,
Elisabetta aveva sempre sofferto la corte di Romolo e l’aveva
accettata per quieto vivere e un po’ per paura, perché lui la
minacciava, dicendole che gliel’avrebbe fatta pagare se non si fosse
messa ad amoreggiare con lui. Non poche volte l’aveva effettivamente
schiaffeggiata e lei non aveva raccontato niente a casa, temendo che
suo padre Luigi e suo fratello Pasquale avrebbero potuto
compromettersi con quel giovane così violento. Aveva finito con il
subire, più che accettare, la compagnia di Romolo quando si recava a
Teramo a vendere il latte e in questo era consistito il loro
amoreggiare, perché non c’era stato nulla di più, nemmeno un bacio o
un abbraccio. Ma tanto era bastato perché chi a Scapriano era al
corrente della cosa, comprese le sorelle, la sua amica Evelina e
qualche altro, fosse convinto e dicesse che Elisabetta e "lu rosce"
amoreggiavano.
Il 15 aprile Elisabetta era stata presa nuovamente a schiaffi da
Romolo e aveva deciso di riferirlo a suo fratello Pasquale, che
l’aveva convinta ad andare insieme dai carabinieri, a Teramo, a
denunciare l’accaduto. Ma poi non aveva saputo se la denuncia aveva
avuto corso o se aveva portato a qualche iniziativa della giustizia
e Romolo aveva continuato a comportarsi come prima, senza
apparentemente sapere nulla della denuncia. Romolo le
si affiancò e le chiese:
- Chi è quel giovane in bicicletta che ti segue? Lo conosci?
- È uno che ho conosciuto casualmente qualche tempo fa alla festa di
Magnanella - rispose Elisabetta, senza fermarsi.
- È stato lui che ti ha scritto qualche giorno fa?
- Ma quando mai! - rispose lei, mostrandosi assai seccata.
- Ti ho sentito l’altro giorno, vicino a Ponte Vezzola, quando hai
chiesto al postino se c’era posta per te.
Elisabetta proseguì senza fermarsi, con Romolo a fianco, che chiese
ancora:
- Ieri sera mi hanno fatto chiamare i carabinieri, per questa
mattina. Sei stata tu a farmi chiamare?
Elisabetta si aggiustò sulle spalle il bidoncino del latte che
portava e rispose:
- Tu sai quello che hai fatto. Romolo la
seguì per un tratto, poi, come vinto dal suo silenzio e dalla sua
determinazione a non dare spiegazioni, si fermò e lasciò che
proseguisse da sola, dopo averle detto:
- Ci vediamo più tardi. .
* Riportiamo l'incipit del libro, volume n. 33 della Collana "Processi celebri teramani". |