Fuochi sotto la cenere *
(Il processo Scena 1a parte  – 1871/1897)

La Corte
Processi celebri teramani.
Collana a cura di Elso Simone Serpentini

Il fuoco sotto la cenere

    Il focolare nelle case abruzzesi, quando ancora non esisteva l'illuminazione elettrica, era solitamente posto al centro della casa. Di notte, quando tutti i componenti della famiglia erano a letto, esso emanava ancora un po' di calore. D'inverno il fuoco restava acceso durante la tutta la giornata e, alla sera, non veniva completamente spento. La padrona di casa lasciava che le grosse braci si incenerissero e, a volte, era ella stessa che le ricpriva con la cenere, per accelerarne il processo di spegnimento. Gli anziani erano soliti dire che il fuoroc "covava" sotto la cenere, o addirittura "dormiva". In queste condizioni esso poteva rimanere a "dormire" tutta la notte, e anche più a lungo.
    Questa abitudine di lasciare le braci accese sotto la cenere faceva parte della vita di tutti i giorni e offriva un duplice vantaggio, quello di mantenere la casa leggermente riscaldata durante la lunga notte invernale e quello di permettere alla padrona di casa di riaccendere il fuoco in maniera più veloce la mattina seguente. Era sufficiente poggiare sulla cenere calda dei ramoscelli secchi perché, dopo qualche minuto, il fuoco che dormiva si risvegliasse.
    Quanto alla cenere, per sua natura essa è un materiale polveroso, grigio e indistinto, che può coprire ogni cosa e nascondere alla vista quello che vi "cova" dentro, ma è inadatto per estinguere ogni
traccia del fuoco arso, per occultare un bivacco o una fiamma che è divampata, perché è noto, del fuoco che sembra spento e covasotto la cenere, che basta un soffio di vento per riattizzarlo o per spargere scintille sull'erba secca o su altro materiale che s'incendia facilmente.
    Anche le emozioni e le passioni sono spesso come la brace che cova sotto la cenere e sono lì, pronte ad accendere grandi fuochi, per poi tornare ad essere, dopo una grande vampata, ancora cenere.

La scoperta del cadavere di Donna Leonilde Catucci

    Mancavano pochi minuti alle tre del pomeriggio di lunedì 13 novembre 1871, quando il 37enne Giovanni Castagna, fu Giuseppe colono della 65enne Donna Leonilde Catucci, fu Egidio, ricca proprietaria di Atri, bussò al portoncino di casa della sua padrona, in via Odazii. Giovanni si meravigliò per il fatto che il portoncino fosse socchiuso. La Catucci, che era nubile e viveva da sola, era assai diffidente e perciò solitamente teneva chiuso il portone, di cui portava la chiave appesa alla cintura, legata ad alcune altre con uno spago bianco. Era strano anche che, sentendo bussare, la vecchia non si affacciasse alla finestra, come faceva sempre, per vedere chi fosse.
    Dopo avere atteso un po' ed aver bussato e chiamato ancora un paio di volte, Giovanni Castagna entrò e si avviò lungo la scalinata interna. Nella prima stanza del secondo piano scorse, disteso a terra e apparentemente privo di vita, il corpo di Donna Leonilde. Guardò meglio: la donna era morta.
 Giovanni corse subito ad avvertire il Sindaco di Atri, Comm.  Antonio Finocchi, Deputato al Parlamento nazionale, che sapeva si trovasse in quel momento nella sala del Caffè di Piazza del Duomo. Il Sindaco, a sua volta, andò subito ad informare il Pretore, Carlo Carugati. Questi, un milanese appena 24enne, al suo primo incarico, era arrivato ad Atri cinque mesi prima, in giugno, e aveva trovato alloggio come dozzinante in casa di Marina Salvatori, nel Palazzo Massimi, e a quell'ora, come faceva di solito, stava pranzando insieme con Federico Antonio Oliviero, Ricevitore del Registro, che era anche lui dozzinante in casa Salvatori.
    Quando il Sindaco Finocchi gli diede la sorprendente notizia, il Pretore Carugati sospese il pranzo e si precipitò, seguito dallo stesso Sindaco,  a casa di Donna Leonilde, dove erano già arrivati, nel frattempo, i Reali Carabinieri. Ben presto fu un grande accorrere di gente, che si fece fatica a tenere lontana. Si pensò subito ad un incidente. La vecchia, che era claudicante e camminava con l'aiuto di un bastone, doveva essere caduta dalle scale e doveva essersi rotta l'osso del collo.
    Il cadavere si trovava ai piedi della scalinata che portava al terzo piano, supino, con la testa verso la gradinata, i piedi verso mezzogiorno e le ginocchia nel mezzo di un ingresso di un'altra camera del secondo piano. Le braccia erano ripiegate sullo stomaco. Accanto al corpo c'erano il bastone e una scarpa. In testa la morta aveva un fazzoletto giallo, piegato a molla, che da dietro la nuca, passando sulle labbra, andava ad intrecciarsi sull'orecchio sinistro, in modo che la bocca ne era chiusa e compressa. Una specie di scialle, più che altro un fazzolettone alquanto lacero, con bordi a quadretti bianchi su un fondo nerognolo, era piegato in quattro e copriva la testa e il petto della morta.
    Accanto alla testa c'era una larga chiazza di sangue, che ancora fuorusciva da una ferita. Essa, però, più che provocata dall'urto susseguente ad una caduta dalle scale, sembrava essere stata causata da un colpo contundente alla testa, che aveva lasciato un'impronta tondeggiante sulla scatola cranica.
    Se Donna Leonilde Catucci era stata uccisa, il movente poteva essere stato il furto, anche se era noto che la donna, assai avara, non aveva niente di valore in casa e diceva a tutti di essere senza soldi, anzi, con espressione tipica del luogo, di essere "disperata".
    Era anche possibile che il movente fosse stato un altro e che l'autore del delitto avesse voluto simulare un furto o una caduta dalle scale. Infatti sul cadavere si notavano anche, oltre alla ferita alla testa, varie escoriazioni e contusioni, la cui natura consentì, ad una prima ricognizione di cadavere, effettuata dal Dott. Alessandro Marucci e dal Dott. Francesco Vecchioni, di formulare l'ipotesi che alla donna, per impedirle di gridare, fosse stata chiusa la bocca con le mani. Alcune delle contusioni facevano pensare all'impronta di una mano, che l'aveva tenuta stretta alla bocca.
     La ferita alla testa, come accertò in seguito la perizia autoptica, era stata sicuramente quella mortale e aveva provocato un forte travaso cerebrale, con conseguente commozione. Le altre cinque ferite lacero-contuse confermavano che la vecchia era stata aggredita e, quindi, assassinata.
 

* Riportiamo l'incipit del libro, che è stato pubblicato come n. 6 nella Collana "Processi celebri teramani".

indietro