Il Mago, il Moro, il Sordo e lo Sciancato
(Tre processi neretesi - 1926-1931)

La Corte
Processi celebri teramani
Collana a cura di Elso Simone Serpentini

 
 

La scoperta

 

L'uomo sembrava molto agitato. Le mani gli tremavano e non riusciva a stare fermo né con il corpo né con le gambe, tanto da dare l'impressione che ballasse. La sua voce era rauca, ma ciò che di lui impressionò soprattutto il maresciallo Antonio Iacomacci, non appena il carabiniere Fioravante Renzetti lo fece entrare nel suo ufficio, furono gli occhi, che l'uomo continuava a roteare con insistenza.

     Il maresciallo conosceva bene quell'uomo, che si chiamava Francesco Baldini, e sapeva che chi faceva il suo mestiere, il fuochista pirotecnico, non poteva non eccellere in coraggio e in sangue freddo. Vederlo così sconvolto lo sorprese non poco, ma alle sue prime parole capì che l'uomo aveva le sue buone ragioni per essere agitato, e non poco.

     - Correte! Correte! - disse Baldini. - Marescia', dovete correre subito! A casa di mia suocera è successa una tragedia.

     - Che cosa è successo? - chiese il maresciallo.

     - Mia suocera... è stata ammazzata.

     - E chi l'ha ammazzata?

     - Il marito. L'hanno vista morta, nel suo letto, in un lago di sangue.

     Baldini riferì sommariamente che qualcuno aveva bussato alla porta di casa della suocera e nessuno aveva aperto, così chi aveva bussato si era affacciato alla finestra della camera da letto e aveva visto sua suocera morta, stesa sul letto in un lago di sangue. Mancava poco alle otto, ma, pur essendo domenica, il maresciallo era sceso nel suo ufficio dalla sua abitazione, che si trovava proprio sopra la caserma, da più di mezz'ora. Certamente non si aspettava che quella giornata, domenica 20 giugno 1926, gli sarebbe rimasta impressa per sempre nella memoria, anche molto tempo dopo il suo congedo.

Da quando era arrivato a Nereto come comandante della locale stazione dei carabinieri, aveva dovuto avere a che fare con le continue lamentele nei confronti di alcuni "strani " personaggi, il cui comportamento era causa continua di perturbamento della quiete pubblica e richiedeva il frequente intervento della legge. Fra tutti, Emilio Azzuni, che tutti ritenevano alienato di mente, era stato quello che lo aveva costretto ad intervenire più volte, soprattutto quando beveva, e lo faceva spesso e volentieri.

     Quando beveva, diventava più violento del solito, soprattutto nei confronti della moglie, Innocenza Pantoli, che lo aveva sposato in seconde nozze. Non poche volte l'uomo l'aveva minacciata di morte, tanto che lei era stata costretta a rifugiarsi in casa della figlia, Grazia Biondi, sposata con quel Francesco Baldini che ora, tanto sconvolto, era andato da lui ad avvertirlo della tragedia che doveva essere avvenuta nel corso della notte in quella casa di via della Fonte, dove Azzuni abitava con sua moglie. Questa volta doveva aver messo in atto la sua minaccia.

     - Questa volta l'ha ammazzata davvero - disse il maresciallo Iacomacci ai due carabinieri che lo stavano accompagnando sul luogo del delitto.

     Scese dal centro del paese e imboccò via della Fonte, che si chiamava così perché vi si trovava una fontana pubblica, con annesso lavatoio. Proprio vicino al lavatoio, sulla destra, c'era un cancello di legno, che dava adito ad un piccolo spiazzale, antistante la casa di Emilio Azzuni. Un muro della casa, sprovvisto di aperture, si affacciava su via della Fonte, mentre la porta d'ingresso si trovava sullo spiazzale, a sinistra di chi entrava dal cancello.

     Il maresciallo aprì il cancello e si avvicinò alla porta, che aveva due battenti e una serratura con un chiavistello lungo poco più di mezzo metro, che doveva servire di giorno come chiusura dall'esterno e di notte come chiusura dall'interno, come mostravano alcuni grossi ganci in ferro, infissi sul muro. La porta era chiusa e non presentava alcuna traccia di effrazione.

     - Forzatela! - ordinò il maresciallo ai due carabinieri che erano con lui.

    Ma non ci fu verso di forzare la porta. Era troppo robusta per essere aperta a spallate. Così il maresciallo cercò di capire se c'era un altro modo di entrare nell'abitazione per constatare quello che era successo. Fece avvertire il proprietario del fabbricato, Giovanni Di Pietro, essendo l'Azzuni solo l'affittuario, per sapere se avesse un'altra chiave, ma ebbe una risposta negativa. Così pensò che l'unico modo di entrare nell'abitazione era quello di passare attraverso una finestra che si trovava a poca altezza dal livello della strada, ma che risultò troppo piccola per consentire l'accesso ad una persona adulta di normale corporatura. Il maresciallo fece allora cercare un ragazzo che potesse più agevolmente passare per quella finestra, che, come notò bene, era priva di un'anta. Doveva essersi staccata dai cardini, perché si trovava a terra, sul piano stradale, a poca distanza.

 

In casa Azzuni

 

     Anche al ragazzo al quale venne affidato l'incarico di passare attraverso la finestra, non essendo proprio mingherlino, risultò difficile entrare nell'abitazione. Ma alla fine ci riuscì e così, una volta entrato, fece quello che il maresciallo gli aveva spiegato bene di fare: recarsi alla porta d'ingresso dell'abitazione e aprirla dall'interno. Non fu facile, ma alla fine la porta venne aperta. Il maresciallo notò che la chiusura dall'interno avveniva tramite un robusto catenaccio, che il ragazzo aveva fatto scivolare negli anelli per aprire.

     Il maresciallo, seguito da due carabinieri, entrò e si trovò in un primo vano, di forma rettangolare. Era la cucina. Si presentava non dissimile da tutte quelle delle tipiche case dei contadini della zona. Sulla sua sinistra, proprio dietro i battenti della porta, vide appoggiati al muro alcuni strumenti di lavoro: una vanga, un bidente, una forca, una scure, due falci, un punteruolo e due roncole. Appoggiato alla parete alla sua sinistra c'era un tavolino e, a seguire, la porta d'ingresso di un'altra stanza.

 

* Riportiamo l'incipit del libro, volume n. 25 della Collana "Processi celebri teramani". 

 

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