La casa delle profughe (I processi Di Nicola e De Bartolomei - 1918)
La Corte
La grande
fuga
La gente diceva che i "tudesch" avevano sfondato le linee
italiane a Caporetto e che stavano per arrivare. Adesso non si
sentiva soltanto il rumore assordante delle granate, come nei giorni
precedenti, ma anche il crepitio delle mitragliatrici, sempre più
vicino. Che i "tudesch" stessero per arrivare doveva essere
vero. La gente diceva che avrebbero tagliato le mani agli uomini e
violentato le donne.
Tutti avevano paura e scappavano, come potevano, con qualsiasi
mezzo, con i carri agricoli trainati dai buoi, con le biciclette e,
quanti non avevano un mezzo di trasporto, a piedi. Non pochi si
trascinavano appresso un carretto sul quale avevano caricato tutto
quello che avevano potuto. Gli uomini erano quasi tutti al fronte, a
scappare erano soprattutto donne e bambini, oltre ai vecchi, quelli
che si erano lasciati convincere a partire, perché la maggior parte
di loro si ostinava a voler restare a guardia delle proprie case,
delle proprie campagne, delle bestie, della roba.
A Moimacco, uno dei paesi della provincia di Udine più vicini al
fronte di guerra, non era rimasto quasi nessuno. La gente in fuga
che arrivava in massa da Cividale diceva che i soldati italiani
posti a difesa della valle del Natisone stavano per cedere e che i
tedeschi sarebbero arrivati davvero presto.
Alcune famiglie che venivano da Purgessimo e da Castelmonte,
composte solo da donne e qualche vecchio, dicevano che s'era perfino
visto qualche tedesco nei boschi, con la testa rasata, l'elmetto a
punta e la faccia feroce.
Come poter pensare di restare a Moimacco, quando tutti se ne
andavano? Maria Treppin capì che avrebbe dovuto andarsene anche lei,
insieme con le figlie, Rosina, Gisella e Milena, tutte e tre molto
giovani. Ma le tremava il cuore a dover abbaondare all'improvviso
ogni cosa, la casa, i campi coltivati, le bestie, e andare, come
tutti, verso l'ignoto. Suo marito Sebastiano era al fronte, chissà
dove, ed erano assai lontani gli anni in cui lui se l'era portata
via da Cles, dalla provincia di Trento, e lei, giovane e bella, lo
aveva seguito, sperando in un futuro migliore, che non avrebbe
certamente avuto tra monti del suo paese natio.
Giusto il tempo di poter raccattare qualche cosa, per lo più alcuni
indumenti, infilarli in un paio di sacchi da appendersi dietro la
schiena e le quattro donne si avviarono a piedi lungo la strada che
portava a Remanzacco. Era ancora notte e pioveva a dirotto. Si
trovarono in mezzo ad una fila interminabile di soldati. Alcuni,
pochi, procedevano su mezzi militari: qualche automobile e alcune
motociclette. La maggior parte andava a piedi, con il fucile a
tracolla, e moltissimi senza.
Ogni tanto il buio della notte veniva squarciato dai lampi delle
granate e si poteva così scorgere per un momento quanto fosse grande
la folla delle persone che avanzavano in una grande confusione,
anche passando in mezzo ai campi, non essendo sufficiente la strada
a contenerle. Poi i soldati diventarono assai numerosi e
cominciarono a pretendere e ad ordinare ai civili di passare in
mezzo ai campi coltivati, riservando a loro e alla loro ritirata
l'uso di quelle come di tutte le altre strade carrabili.
Maria e le figlie procedevano lentamente, non avendo ai piedi
calzature che consentissero un'andatura adeguatamente celere in
mezzo alle campagne, ormai melmose per la continua pioggia e per il
passaggio dei tanti che le avevano precedute in quella che si
rivelava sempre più una vera e propria fuga disperata dal nemico.
Camminavano al buio, perché continuava a piovere e la luna era
completamente coperta dalle nubi. Il fuoco delle granate, che sempre
più spesso illuminava il cielo, in un fragore che si faceva sempre
più cupo e continuo, metteva una grande paura, ma almeno consentiva
di poter vedere davanti a sé. Al ponte
sull'Ellero
Arrivate al torrente Ellero, trovarono il ponte sbarrato dai soldati
e, saputo che il transito era rigorosamente riservato a loro, si
misero in cerca, come tutti, di un tratto guadabile, per poter
passare dall'altra parte.
Le figlie erano già molto stanche e Rosina, che era la più piccola,
non avendo ancora compiuto i quindici anni, piangeva e di disperava.
Giselle, che aveva quattro anni di più, cercava di consolarla e di
incoraggiarla, mentre Milena, la mediana, che aveva da poco
compiouto sedici anni, se ne stava il silenzio, con i grandi occhi
sbarrati.
Maria corse su e giù lungo il torrente, scrutando gli argini, fino a
che trovò un punto dove l'acqua era sufficientemente bassa perché la
corrente, impetuosa, non le travolgesse. Si immerse per prima e
cercò, tenendo per mano Rosina, di guadagnare l'altra sponda,
scivolando non poche volte sul fondo sassoso. Quando si voltò, per
vedere se le altre due figlie la stessero seguendo, scoerse che si
tenevano per mano e procedevano anche loro con molta fatica,
rischiando più volte di cadare.
Dietro di loro altre persone, seguendo il loro esempio, si erano
avventurate cercando di guadare il corso d'qcaua. Maria faticò non
poco, ma riuscì a raggiungere l'argine opposto, sorreggendosi con
una mano e tirandosi dietro con l'altra Rosina, fino a quando non fu
sicura che anche la dfiglia era uscita dall'acqua e aveva messo il
piede sulla terraferma. Poi andò ad aiutare Gisella e Milena.
* Riportiamo l'incipit del libro, volume n. 21 della Collana "Processi celebri teramani". |