Sotto il
regno del rancore *
(Il processo Rubicini -
1919)
La Corte
Processi celebri teramani.
Collana a cura di Elso Simone
Serpentini
Comincia l’inferno
La vita di Giuseppe Rubicini cominciò a diventare un inferno, più di
quanto già non lo fosse, quando, nella primavera del 1917, qualche
giorno prima della morte del notissimo pittore teramano Gennaro
Della Monica, accettò l’incarico di dirigere il macello di Gustavo
Ferrante. Arrivato a 28 anni di età, con la responsabilità di uomo
sposato, non era più il caso di affidare il proprio futuro solo al
destino. Doveva fare qualcosa per indicargli la strada e magari,
indurlo a venire a patti.
Quando era più giovane, aveva iniziato a fare il garzone di bottega
con i Profeta, titolari di una delle più attive macellerie di
Teramo. Ma non si era trovato mai troppo bene con il vecchio
Gaetano, severo, prepotente, scorbutico, e tanto meno con i suoi
figli, Ugo e Aroldo, prepotenti anche loro e maneschi.
Quando lui e il fratello Pancrazio Alfredo, da tutti chiamato
Alfredo, più anziano di lui di due anni, avevano aperto una loro
macelleria, si era licenziato dai Profeta. Questi non avevano
gradito che egli ora si fosse messo in proprio. Da allora tutti e
tre, Gaetano e i suoi due figli, avevano iniziato ad avercela con
lui.
- Che vogliono fare i Rubicini? - chiedeva, sarcastico, Gaetano
Profeta, facendo in modo che Giuseppe e il fratello risapessero
delle sue ironiche considerazioni. - Dove si presentano? Vogliono
fare la fame!
Ma ai due fratelli Rubicini non era poi andato tanto male, anche se
avevano dovuto faticare non poco per affermarsi. Il fatto che
avessero potuto aprire la macelleria proprio sulla Piazza Vittorio
Emanuele li aveva favoriti. Quando le cose avevano preso ad andare
bene, i Profeta avevano mostrato di cominciare a masticare amaro.
- Ma vedrete che prima o poi andranno al fallimento! - continuava a
ripetere Gaetano Profeta.
Adesso a Teramo c’erano ben sette macellai e la concorrenza era
spietata. Era ovvio, perciò, che fra i sette ci fosse una forte
gelosia di mestiere. Riduceva la solidarietà tra appartenenti alla
stessa categoria di lavoro e acuiva la rivalità. I Profeta, poi, che
erano nel mestiere da più lungo tempo, erano i più gelosi e i più
insofferenti nei confronti di chi cercava di affermarsi come loro.
La rivalità con Gustavo Ferrante era forte, ma essi non osavano
prendersela direttamente con lui, perché, essendo titolare di altre
imprese commerciali, poteva contare su un generale rispetto e su una
diffusa considerazione.
“Lu matte”
Quando Alfredo Rubicini era stato richiamato in guerra e aveva
dovuto lasciare la gestione della macelleria, i Profeta avevano
creduto che l’ora del fallimento fosse arrivata per lui e per suo
fratello Giuseppe. Ma i due avevano resistito.
Giuseppe aveva potuto continuare ad andare avanti e aveva
fronteggiato le difficoltà, anche grazie all’incarico che aveva
ricevuto da Gustavo Ferrante. Era stato anche favorito dal fatto
che, almeno lui, era stato dispensato dal servizio militare e dalla
necessità di partire per il fronte. Ma la dispensa era arrivata con
una motivazione, parziale vizio di mente, che gli aveva fatto
attribuire un soprannome dispregiativo: “lu matte”. Così lo
chiamavano tutti in città e matto o mezzo matto era considerato.
Tuttavia, al di là e nonostante questo generale scherno al quale era
fatti oggetto, aveva mostrato di badare al sodo. L’importante era
che non fosse stato costretto a partire sotto le armi e andare in
guerra, lasciando sola sua moglie, come, al contrario, aveva dovuto
fare suo fratello Alfredo, il quale non aveva lasciato soltanto la
moglie, ma anche dei figli in tenera età.
Per ottenere la dispensa dal servizio militare Giuseppe Rubicini
aveva esibito alcuni certificati medici, tra i quali uno relativo ad
alcuni episodi di epilessia verificatisi quando era piccolo, ad una
infezione di sifilide non bene curata e un altro, forse era stato
questo l’elemento determinante, ad un periodo di ricovero presso il
locale Manicomio.
La possibilità datagli di non partire per il fronte, l’incarico
offertogli da Ferrante, il fatto che la sua macelleria continuava a
tirare avanti senza soverchie difficoltà, avevano fatto sì che la
gelosia dei Profeta si indirizzasse tutta contro di lui, e non
contro Ferrante. Gaetano Profeta e i suoi due figli cominciarono a
ingiuriarlo per strada, ad offenderlo, a provocarlo in ogni modo,
quando lo incontravano per strada. Gli davano del “matto”, lo
chiamavano “delinquente” e “mascalzone”; ogni giorno accrescevano le
loro ingiurie e le loro offese.
“Lu matte” diventò per i Profeta l’appellativo usuale con cui
indicavano Giuseppe Rubicini. Quanto a suo fratello Alfredo, il
soprannome con cui era conosciuto in città era quello di “Ruscecachiùve”,
senza che qualcuno avesse memoria di come gli fosse stato
affibbiato. Partito per il fronte, egli rimase fuori dalla furia dei
Profeta, anche quando tornò a Teramo per brevi periodi di licenza.
Sotto il tiro incrociato delle offese e delle ingiurie rimase,
perciò, solo lui, Giuseppe.
Gelosia e risentimento
La gelosia e il risentimento di Gaetano Profeta e dei suoi figli nei
confronti di Giuseppe Rubicini arrivarono al culmine quando Gustavo
Ferrante riuscì a spuntarla su di loro nell’aggiudicazione di una
fornitura di carne all’Ospedale Militare della Croce Rossa, che in
precedenza proprio i Profeta avevano in esclusiva.
* Riportiamo l'incipit
del libro,
che è stato pubblicato come n. 32 nella Collana "Processi celebri
teramani".
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