Parricida per l'onore
(Il processo Trifoni - 1904)

La Corte
Processi celebri teramani
Collana a cura di Elso Simone Serpentini

 
 

Parricidio d’onore

Con il termine “parricidio” [dal lat. parricidium o paricidium], si indica l’omicidio di un ascendente, per lo più il padre, ma anche la madre o il nonno. Però in passato, specie nel linguaggio giudiziario, esso ha indicato anche l’omicidio di un discendente (per es. un figlio) o perfino, in senso lato, quello di un parente stretto, consanguineo o affine (per es. un fratello o il coniuge). Nel diritto penale il legame parentale è considerato aggravante dell’omicidio volontario e può portare alla pena dell’ergastolo.
Ai primi del Novecento a Giulianova, in un palazzo signorile situato proprio sulla piazza principale della cittadina, che portava e porta ancora il nome di Vittorio Emanuele II, all’angolo con il Corso che portava e porta ancora il nome dell’Eroe dei Due Mondi, Giuseppe Garibaldi, si verificò un grave fatto di sangue: il mortale ferimento di una figlia ad opera del proprio padre.
Al crimine, sia sul piano penale, come capo di accusa, che nel racconto che ne fece la stampa dell’epoca, venne attribuito proprio il termine “parricidio” e, individuato il movente principale nel comportamento della figlia, dal padre ritenuto troppo libero o addirittura libertino ed esposto ai pettegolezzi della gente, quello di “parricidio per l’onore”.
Il padre si chiamava Domenico Trifoni, e aveva all’epoca del fatto 68 anni, la figlia si chiamava Caterina, e aveva 32 anni. La famiglia Trifoni era una delle più in vista di Giulianova e l’albero

genealogico risaliva alla metà del 1700. Il nonno di Domenico, che aveva il suo stesso nome, era nato nel 1760, era fratello di Bartolomeo, nato cinque anni prima, nel 1755, e si era sposato con Caterina Brandi. Avevano avuto cinque figli: Bonaventura, Maria, Biagio, Maddalena e Maria Grazia. Il primo, nato nel 1801, sposato con Costanza Biancucci, aveva avuto sette figli. Domenico era il sesto, nato nel 1836, dopo Maria, Vincenza, Anna Saveria, due Agata, la prima delle quali, nata nel 1831 aveva campato un solo anno, e prima di Maria Grazia.
Domenico si era sposato 33enne a Nereto l’11 dicembre 1869 con Costanza De Berardinis, 24enne, figlia di Luigi (nato nel 1802 e morto nel 1874) e di Maria Crocifissa Addarii, (nata nel 1805 e morta nel 1856), figlia di Carmine (nato nel 1760) e di Costanza Biancucci (nata nel 1767 e morta nel 1836).
Da Domenico Trifoni e Costanza De Berardinis era nato Bonaventura, detto Ventura o Venturino, il 20 settembre 1870, proprio il giorno in cui i bersaglieri avevano aperta la breccia di Porta Pia e preso Roma. L’evento aveva fatto gioire lo zio prete, il progressista canonico don Biagio (nato nel 1808), fino a farlo ballare, da solo, nell’ampia sala della sua residenza signorile, con la tonaca che, roteando s’alzava, a glorificare il duplice felice evento.
Un po’ meno aveva gioito il fratello di don Biagio, anch’egli di nome Bonaventura (nato nel 1801), felice neo-nonno, ma ancora legato al Regno di Napoli.
Dopo Bonaventura, erano nati Caterina, il 14 novembre 1871, e Costanzo, nato il 5 febbraio 1873, al quale era stato dato lo stesso nome di sua madre, morta nel darlo alla luce nella villa familiare di Via Campocelletti, a pochi chilometri da Giulianova.
Cresciuto insieme al fratello Bonaventura e alla sorella Caterina, Costanzo aveva mostrato subito un carattere differente e singolare, ma intanto il padre Domenico, come si usava al tempo, aveva sposato in seconde nozze la sorella gemella della moglie defunta, Teresa De Berardinis, dalla quale nel 1878, quando Bonaventura aveva otto anni e Caterina sette, aveva avuto una figlia a cui aveva dato il nome di Margherita. L’anno dopo era nata Amalia e nel 1895 Giuseppina, che però aveva vissuto solo un anno, morendo nel 1896.
I due figli maschi, Ventura e Costanzo, erano vissuti in campagna, poi avevano seguito gli studi e conosciuto una giovinezza di svaghi e di divertimenti, quale certi figli di agiate famiglie teramane si potevano permettere. Mentre Ventura si era appassionato subito alla caccia, Costanzo si era rivelato amante dello sport e dei primi velocipedi, con i quali, quotidianamente, faceva la spola tra Colleranesco, dove si trovava la villa della sua famiglia, e Castelli, percorrendo i 58 chilometri di strada, tutta sassi e buchi, con una bicicletta pesante 38 chilogrammi. Il suo spirito di avventura lo aveva portato anche ad appassionarsi ai primi velocipedi a motore e a tentare di costruire un aereo di legno.
Dopo il 1884, l’anno dell’inaugurazione della ferrovia Giulianova-Teramo, c’era chi si meravigliava assai nel vedere il figlio di Domenico Trifoni, Costanzo, sfidare la velocità della sbuffante locomotiva sul suo calessino, tirato da un cavallino sardo che si chiamava Pizzingrillo. Era andato a comperarlo in Sardegna e se lo era riportato fino a Civitavecchia e infine a Giulianova.

 

Le nozze Trifoni-Piscicelli

Caterina Trifoni, la seconda figlia di Domenico, il 20 settembre 1892 si sposò, 21enne, con Angelo Piscicelli, di Casalanguida, dove andò a stare insieme con il marito. Il loro fu un matrimonio celebrato anche poeticamente. Francesco Contaldi fece stampare dallo Stabilimento del Commercio, in Giulianova, un libretto di otto pagine intitolato “Vigilia d’amore sonetti, nozze Trifoni-Piscicelli”.

Battista De Luca fece stampare un suo carme, intitolato “Ne le città del cratere”, scritto appositamente in occasione delle nozze. Il componimento era preceduto da una dedica, che diceva: “I poveri versi, che vi offro nel più bel giorno di vostra vita, io li scrissi sotto l’incantato cielo partenopeo nell’Aprile di vent’anni fa, quando forse stava per schiudersi il primo fiorito Aprile all’incanto dei vostri occhi soavissimi. Ed è questo al certo l’unico merito che essi potranno vantare, poiché, per un senso di rispetto a quanto sa di giovanile sentimento, non ho creduto ritoccarli nè nella forma nè nel concetto anche per fare che nella loro rude semplicità fossero in qualche modo non indegni di voi. Graditeli adunque, vi prego, mentre sarò abbastanza pago se nel lieto viaggio, che in compagnia del vostro Angelo, intraprenderete durante la dolcissima luna, visitando la città del Cratere, dove l’amico astro degli amanti solo piove intero il suo vago fulgore, vorrete volgere un pensiero fugacissimo a chi degli offerti carmi fu un tempo. L’autore.”

 
 

* Riportiamo l'incipit del libro, volume n. 42 della Collana "Processi celebri teramani". 

indice "Teramo in Giallo"