Te l'ho innaffiata quella vigna! (Il processo Di Gregorio - 1906)
La Corte
Il
fascino delle bocce Se c’era
una passione che riempiva la vita del Pretore di Notaresco, Enrico
Del Piano, era il gioco delle bocce. Più che di una passione vera e
propria, si trattava di una vocazione. Era stato sempre attratto da
quel volteggiare delle bocce attorno al pallino, durante l’accosto,
da quel loro rotolare lento e studiato che veniva accompagnato da
chi le aveva tirate con uno sguardo attento, seguendole a due passi
di distanza, quasi per accelerarne la velocità: con il soffio, se il
tiro appariva corto, o per tentare di rallentarla con la magia di un
movimento all’incontrario delle mani, se si rivelava lungo.
Il Pretore Del Piano si riteneva un ottimo accostatore, preciso,
paziente, metodico. Ma era nella magia della bocciata che pensava di
essere addirittura eccellente. Dopo aver preso la mira portando la
boccia all’altezza degli occhi, in un rituale che era sempre lo
stesso, si lanciava nei tre passi che precedevano il tiro come un
fante che andasse all’assalto impugnando la baionetta. Poi, fatto di
slancio l’ultimo passo, sganciava la sua bomba, quasi sempre
tentando il "fermo", che mandava via lontana la boccia
dell’avversario troppo vicina al pallino e lasciava al suo posto la
sua, non solo sottraendo il punto a chi aveva accostato, ma
conseguendolo per sé.
Negli altri giorni della settimana il Pretore non faceva altro che
aspettare il sabato, pregustando il momento in cui avrebbe potuto,
nel pomeriggio, dopo un’oretta di sonno ristoratore che favoriva la
digestione, recarsi al campo di bocce, dove avrebbe trovato ad
attenderlo i rivali di sempre, accaniti accostatori, per una serie
di epici scontri. Di essi, poi, la cerchia di amici e appassionati
avrebbe parlato per tutta la domenica, prima e dopo la Messa, non
vedendo l’ora di poter tornare nel pomeriggio, sempre dopo il
sonnellino "post-prandium", a sfidarsi nuovamente fino a sera
inoltrata. Quel
sabato, 26 maggio 1906, il Pretore Del Piano aveva un solo
obiettivo, quello di prendersi una bella rivincita sul Sindaco, che
il sabato precedente aveva vinto alla grande, approfittando di una
lunga serie di fortunate combinazioni di gioco.
Le cose erano cominciate bene, perché, se il Sindaco aveva mostrato
di accostare alla grande, il Pretore aveva bocciato sempre con
altrettanta efficacia, aggiudicandosi tre partite su quattro. Due
telegrammi drammatici
Stava per cominciare la quinta partita, quando si avvicinò al
Pretore l’impiegato dell’ufficio postale e gli consegnò un
telegramma. Il Pretore lo lesse e capì che quel sabato la serie
delle partite a bocce finiva in quel momento. Il telegramma
risultava spedito dal Sindaco di Montepagano. Questo ne era il
testo: "Consumati pocanzi con efferatezza vigne Mezzoprete
prossimità paese uxoricidio e duplice omicidio da De Gregorio
Francesco fu Berardo. Disposto custodia cadaveri, avvertendo pure
arma Carabinieri Rosburgo recatisi immediatamente sopra luogo. V.S.
dia sollecite disposizioni."
Non si trattava di un omicidio, ma addirittura di un uxoricidio
seguito da un duplice omicidio: tre morti ammazzati. Era una cosa
seria. Il Pretore salutò gli amici, corse a casa e cominciò a
cambiarsi, non senza qualche momento di impaccio, a causa della
frenesia e della fretta. Si stava aggiustando la giacca, quando
bussò alla sua porta l’ufficiale postale. Aveva con sé un altro
telegramma e glielo consegnò. Lo spediva il brigadiere Luigi Ortenzi,
della stazione dei carabinieri di Rosburgo. Il testo era questo: "Mi
viene riferito dallo assessore Passamonti che oggi fu consumato
uxoricidio e duplice omicidio da De Gregorio Francesco fu Berardo
vigne Mezzopreti in prossimità Montepagano. Mi reco sopraluogo
verifica".
Furono questi due telegrammi ad avviare la macchina della giustizia
a compiere i primi atti formali di quello che fu poi definito "l’eccidio
di Montepagano" e tanto impressionò la popolazione di quel
tratto della costa teramana e dei paesi che dalla sommità delle
colline, già verdeggianti, si specchiavano sul mare Adriatico. Chi
era l’omicida che nella sua furia distruttiva, aveva spento in
pochissimi istanti tre vite umane? Quanto doveva essere stata
efferata la sua criminale determinazione e quali erano state le
modalità di quella triplice esecuzione? Con questi interrogativi in
testa, il Pretore salì sulla carrozza che lo avrebbe portato a
Montepagano.
Quando passò sotto la casa del cancelliere, bussò alla sua porta,
sicuro di trovarlo in casa. Non usciva mai, non aveva in pratica
relazioni sociali e non giocava a bocce. Abitudinario com’era, era
sicuramente nel suo giardino a potare le sue rose. Lo informò con
poche parole dei due telegrammi, dopo di che salirono entrambi sulla
carrozza e si avviarono lungo la strada per Montepagano. Sul luogo
del triplice delitto
Erano le 17,30 quando il brigadiere Luigi Ortenzi, accompagnato dai
carabinieri Francesco Gurliaccio e Elia Nenna, si avviò da Rosburgo
verso la contrada Centovie, in agro del comune di Montepagano, dove
gli era stato riferito che il terribile fatto di sangue era stato
commesso. I tre carabinieri percorsero la strada rotabile che da
Cologna conduceva a Montepagano e arrivarono nel punto in cui essa
attraversava a metà la collina, lungo un tratto dal quale era
preclusa la vista del mare, che si trovava a est. A poco più di due
chilometri di distanza dall’abitato di Montepagano si incontrava un
piccolo cancello di legno, piantato lungo una siepe. Da questo
cancello si accedeva al vigneto della Signora Nicoletta Ponno,
vedova Mezzopreti, che si estendeva per una vasta zona, al di sotto
della strada rotabile e sempre dal lato sud ovest.
Il brigadiere Ortenzi pensò che, se aveva capito bene, era quello il
luogo dove era avvenuto il triplice omicidio. Seguito dai due
carabinieri che erano con lui, si inoltrò in mezzo ai filari delle
viti, che erano sorrette da canne, piantate a linee trasversali, con
una certa regolarità, alte quasi tutte quanto un uomo. Imboccò poi
una strada carrese che attraversava il vigneto e che dopo un po’ si
biforcava in due rami, discendenti a zig zag lungo il terreno, qua e
là accidentato, poi si riuniva in un solo braccio, che andava quasi
a disperdersi lungo i burroni del fosso sottostante.
* Riportiamo l'incipit del libro, volume n. 24 della Collana "Processi celebri teramani". |