LA CITTA' DEI RICORDI

di Elso Simone Serpentini

Il processo ai fratelli Rodomonti

 

La mattina di lunedì 26 luglio 1943, all’indomani dell’arresto di Benito Mussolini a Villa Savoia (avvenuto il giorno prima alle ore 17,30 un gruppo di persone “con tono arrogante” come venne riportato sulla relazione della Questura di Teramo del successivo 30 luglio, incontrato per strada l’agente di P.S. Nicola D’Agostino, lo invitò a togliersi dall’occhiello il distintivo fascista. Essendo rifiutato di farlo, l’agente venne “oltraggiato ed aggredito”. Nel gruppo l’agente D’Agostino riconobbe i fratelli Felice ed Antonio Rodomonte e Italo Guerrieri, quest’ultimo limitatosi a disarmare l’agente quando questi tentò di estrarre la rivoltella. A dar man forte a D’Agostino, intervenne un altro agente,  De Monte, il quale pure fu preso nella mischia, fino a quando non intervenne il maresciallo dei carabinieri Felice Gala. Questi fermò gli aggressori dei due agenti di P.S. e li tradusse nella caserma dei carabinieri di Piazza del Carmine. Durante il percorso, Alberto Rodomonti, fratello di Felice ed Antonio, tentò di aggredire l’agente De Monte, perciò fu fermato anche lui e tradotto pure in caserma.

     Nell’istruttoria che seguì, Felice Rodomonti dichiarò che la mattina del 26 luglio, mentre si trovava in compagnia di alcuni amici, uno di questi aveva invitato un passante a togliersi il distintivo fascista, ma nulla era accaduto. Tornato a casa e riunitosi agli amici, aveva notato che una persona, in abito civile, gli girava attorno e così vicino che gli aveva calpestato un piede. Lo aveva rimproverato e gli aveva dato una spinta, e questo era stato l’inizio della zuffa, poiché erano intervenute altre persone. Era poi sopraggiunto un maresciallo dei carabinieri, che si era qualificato e aveva portato lui e i suoi amici in caserma. Antonio Rodomonti dichiarò di essere intervenuto solo in difesa del fratello, ma era stato aggredito da più persone e si era visto ridotto a mal partito. Alberto Rodomonti dichiarò che, avendo visto i due fratelli tradotti in caserma, aveva chiesto che cosa fosse accaduto e gli agenti, saputo che era il fratello dei fermati, lo avevano invitato a segurili in caserma. Italo Guerrieri negò di aver preso parte alla mischia e che era intervenuto solo quando era ormai finito, aveva scorto a terra una rivoltella, l’aveva raccolta con l’intenzione di andarla a consegnare in Questura quando era stato fermato ed arrestato. Negò pure di aver minacciato il maresciallo Ricca. Tutti, i tre fratelli Rodomonti e Guerrieri, dissero di non sapere che D’Agostino e De Monte fossero agenti di P.S.

 

     D’Agostino dichiarò che, mentre passava tranquillamente per il Corso Vittorio Emanuele, era stato aggredito dai tre fratelli Rodomonti e da Guerrieri, che non gli avevano rivolto nessun invito né nessuna domanda. Escluse che i quattro avessero nei suoi confronti rancori personali. Solo una volta aveva preso parte ad una perquisizione in casa Rodomonti, ma in loro assenza. De Monte dichiarò di essere accorso in aiuto del collega D’Agostino, di essersi qualificato come agente, ma di essere stato ugualmente preso nella zuffa. I testi a discarico dichiararono di non aver sentito nessuno dei due agenti qualificarsi come tali e furono concordi nel dire che la zuffa era finita quando era intervenuto il maresciallo dei carabinieri, che si era qualificato e aveva proceduto agli arresti. Dichiararono pure che i fratelli Rodomonti da tempo erano assenti da Teramo, dove negli ultimi mesi erano stati visti saltuariamente. La lite era stata provocata da D’Agostino, che si era messo a gironzolare attorno ai Rodomonti, pestando un piede ad uno di loro. Escludevano che Guerrieri avesse preso parte ala zuffa. Qualcuno dei testi a discarico dichiarò di avergli visto raccogliere da terra, ma senza capire di che si trattasse. I testi Moretti e Divisi dichiararono che Guerrieri aveva mostrato loro una rivoltella, dicendo loro che doveva essere caduta a qualcuno dei litiganti e perciò la portava in Questura. Nessuno dei testi seppe precisare il ruolo avuto da Alberto Rodomonti.

     Il processo venne celebrato il 13 settembre 1943 presso il Tribunale Penale di Teramo, con un collegio giudicante presieduto dal dott. cav. Nicolino Sparvieri e composto da Ugo Giammico ed Ercole Bracone. Imputati erano i fratelli Felice Rodononti, di anni 42, Antonio Rodomonti, di anni 26, Alberto di Anni 37, figli di Antonio, e Italo Guerrieri, di Berardo, di anni 35,  tutti e quattro detenuti dal 26 luglio 1943. I primi due e il quarto erano imputati della violazione degli artt. 110, 341 pp e cap. ult. C.P. per avere offeso il prestigio dell’agente di P.S. D’Agostino Nicola nell’esercizio delle sue funzioni, usandogli violenza cn calci e con pugni, facendolo cadere e strappandogli la rivoltella di mano e cagionandogli lesioni guarite in giorni dieci. I primi due erano altresì imputati per la violazione dell’art. 337 C.P. per aver usato violenza, prendendolo a pugni, l’agente d P.S. De Monte Amleto, per opporglisi mentre voleva condurli in Questura. Alberto Rodomonti era imputato per la violazione dell’art. 337 C.P. per minaccia all’agente di P.S. De Monte per opporglisi a seguirlo in Questura. Guerrieri era anche imputato della violazione dell’art. 341 p.p. e Ult. I C.P. per aver offeso il prestigio del maresciallo di P.S. Ricca Alfredo, dicendogli a causa e nell’esercizio delle sue funzioni: “e la vedremo a scontata pena”. Venne contestata l’aggravate della recidiva ai primi tre imputati. Escussi i testi, il P.M., chiese la condanna per oltraggio del solo Guerrieri. Nella sentenza conclusiva, il collegio giudicante osservava che nei delitti di oltraggio a pubblico ufficiale l’elemento costitutivo del reato era la conoscenza della qualifica di pubblico ufficiale e che gli imputati, dagli elementi raccolti, avevano agito non sapendo che D’Agostino fossero agenti di P.S. D’Altro canto, la stessa relazione della Questura riportava che i Rodomonti avevano aggredito D’Agostino solo perché portava all’occhiello il distintivo fascista. Questo fatto, considerando il tempo e il luogo del delitto,  avvenuto il 26 luglio, all’indomani del cambiamento del governo, doveva essere stato il movente del delitto stesso, e, sebbene D’Agostino lo negasse, era di conforto al collegio giudicante che era proprio l’ufficio verbalizzante che spiegava così il fatto. Questo movente spiegava che i fratelli Rodomonti non avevano voluto offendere gli agenti in quanto agenti, ed, essendo assenti da Teramo per i loro affari, tornando solo saltuariamente, non potevano sapere che lo fossero. Tanto più che D’Agostino era un agente di P.S. richiamato ed era fondata l’asserzione che gli imputati non conoscessero la sua nuova qualità di recente acquisita. Lo stesso D’Agostino aveva ammesso che gli imputati non potevano avere motivi rancore personale verso di lui, che aveva solo una volta perquisito la loro abitazione e in loro assenza. L’improvvisa aggressione, pertanto, si spiegava solo con il fatto che l’agente portava all’occhiello i distintivo fascista e questo non investiva la sua qualità di pubblico ufficiale. Pertanto il fatto si riduceva a ben più modeste proporzioni come azione commessa in danno di un qualsiasi cittadino. Anche Di Monte non era provato che si fosse qualificato come agente di P.S., a qualificarsi era stato solo il sopraggiunto maresciallo dei carabinieri, che aveva gridato e intimato che li avrebbe portato in caserma. Restava a carico dei fratelli Rodomonti solo il contestato reato di lesioni personali, ma per tale delitto non si poteva agire per difetto di querela.

     Il collegio giudicante escludeva il reato di oltraggio anche per l’imputato Guerrieri, del quale gli agenti avevano dichiarato che si fosse limitato a sottrarre loro la rivoltella, intendendo con tale gesto intimare la calma. Si era trattato di un lodevole intento finalizzato ad evitare conseguenze peggiori dello scambio di pugni nel quale si stava concludendo la zuffa. L collegio giudicante definitiva credibile l’affermazione di Guerrieri, secondo cui aveva raccolta l’arma quando la zuffa era ormai terminata e la stava portando in Questura. L’aver detto al maresciallo Ricca “Ci rivedremo a pena scontata” era dovuto al fatto che egli si ritenesse ingiustamente aggredito da tanti agenti e militari, che avevano rivolto contro di lui le armi, lo avevano ammanettato e poi portato in Questura.

     Quelle parole erano state perciò motivate dal risentimento per il fermo ed era costante riferimento di giurisprudenza che per costituire reato la minaccia dovesse essere seria, grave, tale da mettere l’offeso quanto meno in disagio morale ed avere un significato non equivoco. Nel caso specifico, le parole di Guerrieri non costituivano una seria minaccia e pertanto consentivano un’assoluzione per insufficienza di prove.

     La sentenza concludeva sancendo l’assoluzione di Guerrieri e di Alberto Rodomonti per insufficienza di prove anche per il reato di oltraggio verso il maresciallo Ricca e per non aver commesso il fatto per il reato di oltraggio verso gli agenti Di Monte e D’Agostino. Venne sancito il non doversi procedere nei confronti dei fratelli Felice ed Antonio Rodomonti per oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale e il non doversi procedere nei loro confronti per il reato di lesioni per mancanza di querela. Venne decretata la scarcerazione di tutti e quattro gli imputati se non detenuti per altra causa. La sentenza sarà depositati in cancelleria il 13 ottobre 1943.

     Scarcerati lo stesso giorno 13 settembre 1943, Felice Rodomonti e i fratelli lasceranno Teramo e si ritroveranno a Bosco Martese 12 giorni dopo, il 25 settembre, tra i partigiani che si scontrarono con le truppe tedesche partite per fronteggiarli nel luogo dove essi si erano concentrati.

 

* Tribunale di Teramo, Fascicolo processuale, Registro delle sentenze n. 343, Registro Generale 11:387/943.

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