LA CITTA' DEI RICORDI
di Elso Simone Serpentini
Il processo ai fratelli Rodomonti
D’Agostino dichiarò che, mentre passava tranquillamente per il Corso Vittorio Emanuele, era stato aggredito dai tre fratelli Rodomonti e da Guerrieri, che non gli avevano rivolto nessun invito né nessuna domanda. Escluse che i quattro avessero nei suoi confronti rancori personali. Solo una volta aveva preso parte ad una perquisizione in casa Rodomonti, ma in loro assenza. De Monte dichiarò di essere accorso in aiuto del collega D’Agostino, di essersi qualificato come agente, ma di essere stato ugualmente preso nella zuffa. I testi a discarico dichiararono di non aver sentito nessuno dei due agenti qualificarsi come tali e furono concordi nel dire che la zuffa era finita quando era intervenuto il maresciallo dei carabinieri, che si era qualificato e aveva proceduto agli arresti. Dichiararono pure che i fratelli Rodomonti da tempo erano assenti da Teramo, dove negli ultimi mesi erano stati visti saltuariamente. La lite era stata provocata da D’Agostino, che si era messo a gironzolare attorno ai Rodomonti, pestando un piede ad uno di loro. Escludevano che Guerrieri avesse preso parte ala zuffa. Qualcuno dei testi a discarico dichiarò di avergli visto raccogliere da terra, ma senza capire di che si trattasse. I testi Moretti e Divisi dichiararono che Guerrieri aveva mostrato loro una rivoltella, dicendo loro che doveva essere caduta a qualcuno dei litiganti e perciò la portava in Questura. Nessuno dei testi seppe precisare il ruolo avuto da Alberto Rodomonti. Il processo venne celebrato il 13 settembre 1943 presso il Tribunale Penale di Teramo, con un collegio giudicante presieduto dal dott. cav. Nicolino Sparvieri e composto da Ugo Giammico ed Ercole Bracone. Imputati erano i fratelli Felice Rodononti, di anni 42, Antonio Rodomonti, di anni 26, Alberto di Anni 37, figli di Antonio, e Italo Guerrieri, di Berardo, di anni 35, tutti e quattro detenuti dal 26 luglio 1943. I primi due e il quarto erano imputati della violazione degli artt. 110, 341 pp e cap. ult. C.P. per avere offeso il prestigio dell’agente di P.S. D’Agostino Nicola nell’esercizio delle sue funzioni, usandogli violenza cn calci e con pugni, facendolo cadere e strappandogli la rivoltella di mano e cagionandogli lesioni guarite in giorni dieci. I primi due erano altresì imputati per la violazione dell’art. 337 C.P. per aver usato violenza, prendendolo a pugni, l’agente d P.S. De Monte Amleto, per opporglisi mentre voleva condurli in Questura. Alberto Rodomonti era imputato per la violazione dell’art. 337 C.P. per minaccia all’agente di P.S. De Monte per opporglisi a seguirlo in Questura. Guerrieri era anche imputato della violazione dell’art. 341 p.p. e Ult. I C.P. per aver offeso il prestigio del maresciallo di P.S. Ricca Alfredo, dicendogli a causa e nell’esercizio delle sue funzioni: “e la vedremo a scontata pena”. Venne contestata l’aggravate della recidiva ai primi tre imputati. Escussi i testi, il P.M., chiese la condanna per oltraggio del solo Guerrieri. Nella sentenza conclusiva, il collegio giudicante osservava che nei delitti di oltraggio a pubblico ufficiale l’elemento costitutivo del reato era la conoscenza della qualifica di pubblico ufficiale e che gli imputati, dagli elementi raccolti, avevano agito non sapendo che D’Agostino fossero agenti di P.S. D’Altro canto, la stessa relazione della Questura riportava che i Rodomonti avevano aggredito D’Agostino solo perché portava all’occhiello il distintivo fascista. Questo fatto, considerando il tempo e il luogo del delitto, avvenuto il 26 luglio, all’indomani del cambiamento del governo, doveva essere stato il movente del delitto stesso, e, sebbene D’Agostino lo negasse, era di conforto al collegio giudicante che era proprio l’ufficio verbalizzante che spiegava così il fatto. Questo movente spiegava che i fratelli Rodomonti non avevano voluto offendere gli agenti in quanto agenti, ed, essendo assenti da Teramo per i loro affari, tornando solo saltuariamente, non potevano sapere che lo fossero. Tanto più che D’Agostino era un agente di P.S. richiamato ed era fondata l’asserzione che gli imputati non conoscessero la sua nuova qualità di recente acquisita. Lo stesso D’Agostino aveva ammesso che gli imputati non potevano avere motivi rancore personale verso di lui, che aveva solo una volta perquisito la loro abitazione e in loro assenza. L’improvvisa aggressione, pertanto, si spiegava solo con il fatto che l’agente portava all’occhiello i distintivo fascista e questo non investiva la sua qualità di pubblico ufficiale. Pertanto il fatto si riduceva a ben più modeste proporzioni come azione commessa in danno di un qualsiasi cittadino. Anche Di Monte non era provato che si fosse qualificato come agente di P.S., a qualificarsi era stato solo il sopraggiunto maresciallo dei carabinieri, che aveva gridato e intimato che li avrebbe portato in caserma. Restava a carico dei fratelli Rodomonti solo il contestato reato di lesioni personali, ma per tale delitto non si poteva agire per difetto di querela.
* Tribunale di Teramo, Fascicolo processuale, Registro delle sentenze n. 343, Registro Generale 11:387/943. |