LA CITTA' DEI RICORDI
di Elso Simone Serpentini
L'impresario disperato
Qualche successo ci fu solo quando arrivò qualche bellezza esotica di cui i giovani teramani andarono pazzi, tanto da andarle a cantare serenate sotto la finestra dell’albergo, come avvenne alla De Lest. "Una regina di cui tutti vorrebbero essere sudditi" si scrisse. E ancora: "Farà fare molto latte alle giovani speranze teramane." Ma, a parte la "Delestite acuta", segnalata come malattia che aveva colpito i giovani teramani, il resto non era che squallore. Per far accorrere gente al botteghino, l’impresario ricorse ad uno stratagemma: fece diffondere la voce che sarebbe stato presente alla rappresentazione del "Ruy Blas" l’autore in persona, il famoso Marchetti. Quando la mistificazione fu nota, l’impresario dovette assentarsi da Teramo per qualche giorno. Il successo era grande solo quando al Teatro Comunale tornava la De Lest: era allora che ci si poteva trovare di fronte ad una vera marea di carne umana, e alcuni giovani le declamavano un sonetto, i coristi le recitavano poesie, altri le offrivano quadri a pastello, con lei ritratta sulla scena. Ogni sera veniva accompagnata in albergo da una folla di ammiratori, con tanto di fiaccole e di fuochi di bengala. Dalle altre città dell’Abruzzo, segnatamente da Chieti, giungevano notizie di eccezionali trionfi. A Teramo il Teatro languiva e il cronista alle notizie che venivano dal teatro dell’Aquila annotava : "Mi viene proprio l’acquolina in bocca." I teramani si accontentavano di sentire la banda in Piazza, e per di più senza Maestro. Poi finalmente la grande notizia: il Direttore della Filarmonica di Benevento, Sig. Antonio Trapani, capostipite di numerose famiglie di cantanti e suonatori, era in visita a Teramo per chiedere al Municipio la concessione del Teatro per la stagione successiva; egli aveva parlato di un repertorio di ben 43 opere! L’accordo andò in porto. Il Trapani avrebbe portato a Teramo ben tre prime donne. Il successo durò un paio di rappresentazioni. Poi si tornò al deserto di prima. Questa volta il cronista si arrabbiò veramente e scrisse che, se i teramani non fossero corsi questa volta a teatro, per l’avvenire non avrebbero più avuto diritto di sentire "nemmeno un cane che latri!" "Se continuiamo così – concludeva – ci prenderemo il titolo di spilorci." Quando arrivò il grande successo de "Il Parafulmine" (uno spartito del concittadino Melchiorre Delfico), la cosa sembrò eccezionale, tanto che qualcuno a Teramo pensò di collocare sulla facciata del Teatro una lapide commemorativa della rappresentazione. Ma negli anni successivi si fece fatica perfino ad aprirlo il Teatro e il cronista fece atto di contrizione a nome dei teramani: "Mettiamoci una mano sul petto. Facciamo nulla noi per porre la nostra città al livello delle altre? … Facciamo nulla almeno per renderla abitabile? … Il Teatro non si può o non si vuole aprire. La sera bisogna andare a letto alle nove, i caffè si rendono vuoti, le vie deserte e buie. Si crede così di provvedere al decoro della città? Mettiamoci la mano sul petto: se si continua così Caprafico darà dei punti a Teramo." Il Teatro si aprì e le opere erano buone. Ma il pubblico fu ancora scarso. E il cronista scriveva: "Freddezza…freddezza." Poi fu peggio, perché gli spettatori cominciarono ad abituarsi a interrompere le rappresentazioni con schiamazzi e urla "degne del teatro di Donna Peppa". Non servirono nemmeno audaci iniziative e primizie teatrali: "Questo pubblico teramano non si scuote, neppure alle novità! Per le future stagioni propongo le marionette. Tant’è, questo esperimento ci resta da fare". Dopo le alterne vicende che contraddistinsero la vita teatrale teramana in quel decennio, 1870-1880, quasi sul finire del decennio stesso, nel febbraio del 1879, su il "Corriere Abruzzese" comparve un articolo intitolato "Le 99 disgrazie di un capocomico improvvisato", in cui venivano ironicamente raccontate le peripezie di un appassionato di teatro che si era messo in mente di costituire una Filodrammatica Teramana. Ma la Quaresima sarebbe stata breve e, se il Carnevale non era stato buono, i teramani avrebbero continuato, come sempre, a sperare nella Pasqua. |