LA CITTA' DEI RICORDI

di Elso Simone Serpentini

La locandiera e il figliastro ladro

 

Ricorderete anche voi di quella volta in cui (era il 1872) Zopito Perilli denunciò la moglie, Elisabetta Braca, per adulterio e furto, no? Sono sicuro di sì. Forse non sapete di quando, sette anni dopo, fu Elisabetta, meglio conosciuta come "Sabbetta", a denunciare il figlio del marito, Enrico. Sì, perché Elisabetta era la seconda moglie di Zopito Perilli, titolare della casa-locanda-bettola Perilli che si trovava nel Quartiere San Leonardo a Teramo. La denuncia la presentò al Delegato di Pubblica Sicurezza Tito Perfetti il 29 novembre 1879.

    Denunciò che verso le ore 18 si era recata in Chiesa e aveva lasciato in casa il figliastro Enrico Perilli, figlio della prima moglie di Zopito, Anna Vincenza Guardiani. Circa un’ora dopo ella era tornata e non aveva trovato il figliastro, ma nemmeno il denaro che teneva dentro una cassa chiusa a chiave, che aveva trovato scassinata. E la cassa era dentro la sua camera, chiusa a chiave, che, evidentemente era stata aperta con una chiave falsa. Le erano mancate la bellezza di 200 lire, di cui parte erano sue e parte di una sua socia in affari, Paolina D’Antonio.

 

 

 

 

   Lei aveva subito sospettato di Enrico, perché era l’unico che poteva entrare nella sua camera, e perché già in passato il giovane, 26 anni, senza arte né parte, aveva rubato. Al padre Zopito aveva rubato una volta 77 lire, una seconda volta 55 lire, ed era stato condannato due anni prima ad un mese di carcere, con sentenza della Pretura di Teramo, per furto semplice in danno della Agenzia delle Imposte. Era stato anche condannato a pagare un’ammenda di lire 4 per un altro furto alla matrigna.

    Tra i testimoni "Sabbetta" indicò Salvatore De Angelis, 30 anni, detto "lo zingarello" e Filippo Esposito, un fruttivendolo. Ad entrambi il giovane ladro si era confidato, diceva Sabbetta, dicendo di avere rubato alla matrigna del denaro, ma non 200 lire, come diceva lei, bensì 50 lire. Il Giudice Istruttore Raffaele Granata, che interrogò in carcere Enrico Perilli, gli sentì dire che egli era innocente. Il giovane accusò anzi la matrigna, dicendo che ella aveva simulato il furto, per allontanarlo di casa e non dargli più da mangiare. Inoltre, parlando con Emidio Acunzoli, gli aveva detto che le erano state rubate 50 lire e, parlando con Donato Montagnoli, aveva detto che le erano state rubate 200 lire. E perché allora, gli chiese il Giudice Granata, si era allontanato di casa proprio quel giorno, senza farvi più ritorno? Perché, rispose Enrico, la matrigna, accusandolo di furto, gli voleva dare due colpi di coltello.

    Il Giudice Granata delegò al Pretore di Teramo il compito di sentire i testi a carico. E così fu il Vice-Pretore Agostino Giosia che interrogò il 5 dicembre la denunciante e fu il Pretore di Teramo Giovanni Donno, assistito dallo scrivano Mangiapapa, che interrogò Filippo Esposito e Salvatore De Angelis.

Tutte le deposizioni consentirono che a Teramo sorgessero due partiti: il primo composto da coloro che credevano che Enrico Perilli avesse effettivamente rubato il denaro della matrigna, il secondo composto da coloro i quali ritenevano che la Braca avesse simulato il furto. E perché lo avrebbe simulato? Per avere la scusa di non restituire alla socia Paolina D’Antonio il denaro che era suo, e che ammontava a 50 lire.

    Quelli che sostenevano il secondo partito davano molta importanza a ciò che aveva raccontato al Pretore Donato Di Berardo, e non Montagnoli come aveva detto la Braca, calzolaio, 29 anni. Il povero Enrico, aveva detto il Di Berardo, si era recato nella sua bottega la sera del furto, e, avendo chiesto al giovane se era vero che aveva rubato 200 lire alla Braca, come si diceva in città, si era sentito rispondere che non era vero e che egli non aveva nemmeno lei e se il furto l’ha simulato. Ma so che lei possiede e quindi può rispondere del mio denaro".

    I teramani commentarono divertiti la conclusione che diede alla vicenda la Camera di Consiglio del Tribunale di Teramo, presieduta dal Cav. Francesco Alessandri, il 31 gennaio 1880. Non c’erano sufficienti indizi che il furto ci fosse stato e che Enrico Perilli ne fosse stato l’autore, pertanto non si poteva che dichiarare il non luogo a procedere e il giovane andava scarcerato.

   Per molti mesi molti teramani si divertirono a raccontare che, nel silenzio soddisfatto di Zopito Perilli, alla moglie Elisabetta Braca, la notissima "Sabbetta", era scoppiata la bile il giorno in cui il figliastro Enrico era stato scarcerato e lei aveva dovuto riprenderselo a casa, anzi in quella casa-bettola-locanda che era la "Locanda Perilli".

indice