LA CITTA' DEI RICORDI

di Elso Simone Serpentini

Polemisti all'... OPERA

 

Sembrerà a molti incredibile, ma bisogna dire che c’è stato a Teramo un tempo in cui per strada, nelle piazze e nei Caffè (non si chiamavano ancora bar) non si discuteva con accanimento di calcio (anche perché non era stato ancora inventato), ma di teatro e di musica.

     La gente si accapigliava nel commentare le esibizioni operistiche nel Teatro Comunale e il valore delle compagnie e delle prime donne, si giudicavano spaccando il capello in quattro le prestazioni dei cantanti e dei musicisti, non trascurando la messa in scena e le scelte del regista.

     Per dare un’idea di queste discussioni, trasferiamoci, come d’incanto, in un Caffè della Teramo di inizio 1886, intrufoliamoci tra gli avventori che, seduti ad un tavolo, stanno accanitamente discutendo di teatro…

 

 

    - Devo dire la verità - disse un tale che tutti chiamavano Furio - non avrei proprio voluto prendermi la briga di scrivere le critiche teatrali sul Corriere Abruzzese. Avrei fatto chissà che cosa per tirarmi indietro, ma non ho potuto.

    - Era sufficiente che rispondeste di no al direttore Taffiorelli - gli fece presente un tale, con un’aria canzonatoria.

    Furio lo guardò un po’ stralunato, poi disse, assumendo anche lui un’aria canzonatorio:

   - In ogni modo, eccomi qua, critico e cronista teatrale, più critico che cronista, più cronista che critico, o forse tutti e due o né critico né cronista… risolvete voi l’enigma, altrimenti gettatemi dalla rupe Tarpea…

    - Ma a Teramo non abbiano una Rupe Tarpea - provò ad obiettare, sorridendo sotto i baffi, il tale.

    - Allora gettatemi dalla rupe di Patille, giù nei gorghi del Tor-dino - concluse Furio, facendo seguire una sonora risata.

    Intervenne un tizio, seduto anche lui al tavolo del Caffè, che fino a quel momento era rimasto silenzioso e chiese a Furio:

    - Ma perché avete scritto che alla prima recita della Traviata il pubblico applaudiva gli artisti ancor prima che aprissero bocca?

   - Perché, non è forse vero? - replicò Furio. - Se c’eravate, non avete non potuto notare che è avvenuto proprio quanto ho detto. C’è stato un uragano di applausi ancor prima che la compagnia mostrasse di meritarli.

    - E a che cosa lo attribuite? - chiese l’altro.

    - Mah, forse all’indole abruzzese, a quel nostro desiderio congenito di opporci ad ogni prepotenza.

   - E che c’entra questo con gli applausi anticipati?

   - C’entra, c’entra... - rispose Furio. - Perché a Margherita Gautier si vuole imporre una prepotenza ed è proprio questa prepotenza che ci induce a perdonare tutte le sue colpe e ne fa una martire. Margherita Gautier, Manon Lescaut, la Maddalena sono tre grandi peccatrici e sono al tempo stesso tre eroine, sono la personificazione della febbre dei sensi, ma anche dell’amore santificato.

   - Insomma voi sostenete - intervenne un altro, che anche lui era stato fino ad allora silenzioso, stando seduto ad un tavolo vicino - che è stata la forza della trama a indurre il pubblico ad applaudire freneticamente l’opera, ancor prima che gli artisti si mostrassero all’altezza?

   A quel punto Furio alzò la voce e chiese, dando una risposta sotto forma di domanda:

   - E non è forse vero che si sarebbero state molte ragioni per non applaudire?

   La discussione che seguì fu assai animata. Furio ammise che anche nelle recite successive alla prima la signorina Violetta Bignardi si era mostrata all’altezza del compito, esile, quasi diafana nella persona, dominata dalla nevrosi come doveva essere appunto Margherita, buona attrice drammatica, dalla voce armoniosa e gentile, dal fraseggio di una finezza artistica difficilmente eguagliabile.

    Il sig. Alfredo Venturosi era parso un simpatico giovane, dalla voce eguale, bella, forte, accentuava con passione le scene culminanti della sua parte e si era meritato l’onore del bis nell’aria del secondo atto Dei miei bollenti spiriti. Il signor Querzè, poi, che impersonava Germont padre, aveva una bella voce da barritono tenoreggiante, ma omogenea, accostante, modulava bene, sentiva ciò che diceva e pareva desideroso di apprendere e di migliorarsi. Tutti buoni pregi per un esordiente qual era.

    Quanto al signor Billi, il basso, si sarebbe dovuto aspettare la Lucia per giudicarlo, perché nella Traviata la sua parte era da comprimario, ma, per essere anche lui un debuttante, si era mostrato promettente. Erano l’orchestra e la messa in scena che non meritavano di essere applaudite, disse Furio, ribadendo il giudizio che aveva pubblicato come cronista del Corriere Abruzzese.

    - Che cosa avete da rimproverare al maestro Dati? - chiese il tizio che si trovava seduto alla destra di Furio.

   - A lui nulla, anzi, sono contento del suo ritorno, perché senza di lui, e senza la bravura del nostro Pachini, l’orchestra avrebbe ancor più demeritato, fatta eccezione per il preludio del quarto atto, dove ogni sera la si applaudisce a ragione. Ma per il resto? C’è sempre la questione dei tempi sbagliati, di chi è la colpa? Del fatto che è piccola ed esigua e l’impresario non è riuscito ad accrescerla per le bricconate di una agenzia di Napoli? Non certo del maestro Dati, che, anzi, cerca sempre di tenerla in carreggiata.

   Nel prosieguo della discussione Furio ammise che sì, anche De Sanctis era uno strumentista di valore, confermandosi un suonatore di clarino sicurissimo, preciso e di forza.

    - Ma allora - obiettò un tale - se ammettete che il maestro Dati non ha colpa, che Pachini e De Sanctis sono strumentisti di valore, come potete dir male dell’orchestra?

    Furio insistette nelle sue critiche: l’orchestra non era all’altezza, così come la messa in scena, rivelatasi meschina e talvolta indecorosa, e così come i cori, nonostante la bravura del maestro Roma. La discussione diventò assai animata, perché non pochi accusarono Furio di contraddirsi. Il maestro Dati era bravo, ma l’orchestra non era all’altezza; il maestro Roma era bravo, ma sui cori aveva da ridire. Come poteva sostenere queste tesi in contrasto tra di loro? Furio spiegò:

    - Nel coro le donne sono pochine, pochine davvero, vanno male e gli uomini brancolano incerti nelle tenebre. E insieme, uomini e donne, naufragano ogni sera di più. Non notate anche voi quelle numerose incertezze, i difetti delle entrate in tempo, gli sforzi erculei ma inutili dei nostri capifila d’orchestra? Parlatene con il maestro Dati, con Pachini, con Algeste, che salvano ogni sera dal patatrac e ne saprete quanto ne so io.

    A chi provò ad opporsi a qualche suo giudizio ritenuto troppo drastico, Furio replicò:

    - Credete a me, abbiamo uno spettacolo che possiamo prendere per buono per la sola ragione che non ne abbiamo un altro di scorta ed è a grande ribasso di prezzi. Altrimenti…

    Le serate successive ci furono altre discussioni tra gli abitué del Caffè, quasi sempre gli stessi, e i pareri sulle recite furono ancora discordi. A Furio furono rimproverati i suoi giudizi, glie ne furono contrapposti altri, differenti, pubblicati su altri giornali, ben sapendo quanto egli soffrisse di essere confrontato con gli altri cronisti teatrali, dal suo antico rivale, che si firmava Ipsilonne, al neo-corrispondente del Montecorno. Di quest’ultimo Furio disse ad un tratto:

    - Io non scendo in lizza con lui, perché sono come quei cavalieri antichi che non accettavano le sfide che degli avversari ritenuti degni di tener l’agone.

    Gli fu fatto presente da molti che le recite de La Traviata erano quasi sempre "semipiene". Furio concordò, ma intervenne nella discussione un tizio che nelle serate precedenti non era stato molto ciarliero e invece quella sera sbottò:

    - Per le serate pari, perché per quelle dispari è meglio dire che sono semivuote. E poi non ci voleva molto per avere più pubblico della stagione dell’anno passato, quando alla ventesima recita c’era in teatro così poca gente che tra gli spettatori della platea e quelli dei palchi si poteva aprire una conversazione familiare.

    Furio gli diede ragione, anzi, non gli parve vero di trovare uno che fosse più critico di lui, ma se la prese a male quando quello stesso che era arrivato a dargli man forte concordò con le lagnanze pubblicate da Ipsilonne sul suo giornale, dicendo:

    - Intanto, fin dalla prima recita ci si promette l’arrivo di un altro violoncello e ancora non arriva.

    Furio si sentì in dovere di precisare:

    - Per me sono soprattutto i coristi che sono penosi, anzi, pazzi, pazzi, pazzi. Dovremo dire al maestro Roma di dar loro del bromuro.

    Tutti ormai sapevano che, per far arrabbiare Furio, che firmava le sue cronache teatrali sul Corriere Abruzzese, bastava con-trapporgli quanto scriveva Ipsilonne sul giornale concorrente. Così ogni sera, dopo le recite, c’era chi, seduto ai tavolini del Caffè Roma, si divertiva a sfotterlo e a provocarlo. La discussione si animava e si arrivava quasi alla lite. Una sera Furio stava facendo gli elogi del tenore Venturoli per la romanza Dei miei bollenti spiriti e per il suo magnifico si naturale, che fico si naturale, che aveva indotto il pubblico a chiedergli il bis del Croce e delizia, quando uno se ne uscì di traverso, citando l’articolo di Ipsilonne. Furio, è il caso di dirlo, andò su tutte le furie e prese a dire:

    - E perché Ipsilonne non ha scritto che al terzetto finale ad ogni recita manca sempre l’assieme?

    Il provocatore aveva raggiunto il suo scopo e Furio era tornato ad essere irrefrenabile. Fece una lunga tirata contro Ipsilonne, che non aveva, secondo lui, sottolineato quanto fosse brava la signora Bignardi, che giustamente era diventata l’idolo del "pubblico intelligente". Nell’Amami Alfredo la Bignardi aveva rivelato vero ingegno, inducendo il pubblico, nel vaneggiamento che precedeva la catastrofe, a fremere, a piangere insieme con lei e ad imprecare contro il perfido destino. Il provocatore provò a fargli osservare che, quando aveva cantato da paggio nel Ballo in maschera, quando aveva impersonato il capraio nella Dinhora, quando era stata Casilda nel Ruy-Blas…. Furio non lo lasciò continuare. Si alzò in piedi, con tanto slancio da far tremare il tavolino davanti al quale era seduto, e proruppe:

    - Non l’ho sentita cantare da paggio, ma sono sicuro che sarà stata un paggio stupendo. Non l’ho sentita cantare da capraio, ma il cav. Quintili Leoni, che l’ha avuta compagna nell’opera, l’ha molto lodata. Quanto alla parte di Casilda nel Ruy-Blas, caro signore, vi faccio notare che vi sbagliate di grosso e ho per certo che la signora Bignardi non ha mai sostenuto questa parte.

    Altro argomento di discussione fu il fatto che il signor Querzè, baritono, fosse stato impiegato come secondo tenore. Il provocatore disse di condividere gli elogi di Ipsilonne e anche qui Furio scattò, punto sul viso:

    - Allora, mio caro signore, chiamate il vostro Ipsilonne, che è un conoscitore di musica, e chiedetegli come crede possibile che la voce da baritono possa estendersi dal do al la bemolle!

    C’era chi si divertiva molto, e ogni sera, al vivace scambio di battute tra Furio e il solito provocatore di turno, che non mancava mai. Ma tutti sapevano che, dopo ogni recita, Furio andava a sedersi ad uno dei tavoli del Caffè e, se volevano divertirsi, non avevano che andare a sedersi anche loro a qualcuno dei tavoli vicini.

 

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    Non c’era solo Furio a parlare di teatro e di cose musicali. Altri tavoli erano al centro di animate discussioni e a volte accadeva che esse, dapprima separate e distinte, all’improvviso, a causa di qualche tono di voce esasperato, si riunissero, si fondessero e diventassero una sola discussione generale, a più voci, e tutte intonate nel registro più alto. Oltre alle discussioni su temi musicali, si verificavano a volte delle scivolate su pettegolezzi riguardo alla vita privata degli artisti. Si fece un gran parlare una sera delle lettere anonime che riceveva in continuazione il simpatico Venturoli, il tenore. Sentendone parlare, un tizio, che non ne era al corrente, chiese, piuttosto ingenuamente, se le lettere anonime contenessero minacce o estorsioni. La risposta fu una risata generale e Furio, come al solito, si mostrò il più informato e fornì le spiegazioni dovute:

    - Ho saputo - disse - che le lettere anonime le scrive una signorina ricca, innamoratasi del tenore, e che già nella prima letterae lo invitava a trovarsi sotto i portici del Caffè Roma dalle 5 alle 6 per un appuntamento. Poiché il tenore non si è presentato, in una seconda lettera la signorina gli ha dato del "vile vigliacco" e nelle lettere successive ha continuato a scrivere di peggio. Ma il tenore Venturoli non si è mai presentato.

    Molti concordarono: in effetti il tenore sotto i portici del Caffè non lo si era mai visto. Ma chi poteva essere l’anonima, ricca, signorina? Nessuno lo sapeva. Qualche sera dopo, dopo la recita, il pubblico, uscendo dal Teatro, trovò la neve per le strade e ancora nevicava. Si commentò, tra i tavoli, quell’improvviso calo del barometro e un buontempone, forse per fare una "freddura", disse che invece il termometro al teatro era sempre più alto, intendendo dire che, secondo lui, l’entusiasmo del pubblico era sempre più grande ad ogni recita. Ma Furio, forse, comprese male la battuta del malcapitato, ché tale costui si rivelò dopo che lo stesso Furio lo investì con grande ardore: - Come potete sostenere questo, se ogni sera a teatro fa sempre più freddo? L’altro aveva inteso riferirsi ad una temperatura metaforica; Furio, al contrario, si riferiva ad una sua vecchia polemica, basata sull’accusa che aveva fatto spesso agli amministratori e agli impresari di non spendere abbastanza per riscaldare il teatro. Insistette sullo stesso tema anche la sera successiva e attenuò il suo spirito polemico contro quello che definiva "il freddo da cani" che faceva al teatro, solo quando prese a dirsi incantato da una visione che aveva avuto prima della recita.

    - Alcune signorine, e tra le più belle, per recarsi in teatro, procedevano lungo il Corso lurido e scuro, ricoperto di neve in via di scioglimento e diventata perciò tutta una fanghiglia, tentando ad ogni passo di scansare qualche pozzanghera particolarmente temibile. Si facevano schermo agli occhi belli ed eloquenti e ai capelli, in molte biondi come quelli di Margherita Gauthier, con le mani inguantate, con le quali qualcun’altra aveva tratto fuori dalla propria borsa una bianca mantella.

    Quando Furio, e gli capitava spesso, faceva queste romantiche tirate, non mancava chi, seduto a suo fianco o ai tavoli vicini, sorrideva sotto i baffi, sapendo che il cronista teatrale del Corriere Abruzzese le avrebbe riportate pari pari sul suo giornale. Era evidente che ciò che Furio veniva elaborando dentro di sé subito dopo la recita e perfino in quelle discussioni da Caffè che seguivano, era la sua fonte di ispirazione. Poi una sera prese a parlare delle prove che si venivano facendo della Lucia di Lammermoor. Fece intendere di aver assistito personalmente a qualcuna di quelle prove e prese a dire che la Lucia si sarebbe rivelata la grande attrazione della stagione teatrale. Gli artisti, disse, si sarebbero comportati tutti assai meglio che ne La Traviata, anche grazie all’opera del maestro Cipollone, che si prodigava per avere il meglio dagli artisti e non si risparmiava nel prepararli ad affrontare il giudizio del pubblico.

 

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    Quando la sera della prima della Lucia si avvicinò (sarebbe stato mercoledì) ai tavoli del Caffè Roma ci fu un gran fermento, superiore a quello che aveva caratterizzo la discussione su un piacevole intermezzo de La traviata con il quale gli impresari avevano deliziato il pubblico. Lo stesso Furio, solitamente, ipercritico, se ne diceva entusiasta:

   - Il duetto del Guarany è stato un gioiello e lo risentiremo sempre assai volentieri.

    Ormai non si viveva che in attesa della prima della Lucia e la sera precedente ai tavoli del Caffè Roma si facevano solo pronostici. Come sarebbe stata? Sarebbero stati all’altezza gli artisti e, soprattutto, i coristi, che, fino ad allora, avevano tanto lasciato a desiderare? Non si sarebbe parlato d’altro, quella sera, se non si fosse dovuto fare qualche commento anche su uno spiacevole episodio. Mentre il tenore Venturoli cantava il terzo atto della Traviata un ignoto ladro era entrato nel suo camerino e gli aveva rubato il portafoglio, con dentro 51 lire e delle carte importanti. Scoperto il furto, la forza pubblica aveva messo a soqquadro il teatro, compreso il palcoscenico, e aveva tratto in arresto un tale, addetto ai bassi servizi, che poi era stato rilasciato, non essendosi trovato nulla di consistente a suo carico. Lo sdegno era generale. Ci si attendeva che la Deputazione teatrale prendesse i dovuti provvedimenti.

 

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    Quella mattina Furio piombò come una "furia" (è il caso di dirlo) nell’ufficio del direttore del Corriere Abruzzese, Francesco Taffiorelli, e, più "furioso" del solito, con voce alterata, annunciò le sue dimissioni da cronista teatrale del giornale.

    - Questo da voi non me lo sarei aspettato! - continuava a ripetere.

    Quando si calmò un po’, ma ci mise molto tempo, il direttore riuscì a comprendere le ragioni delle annunciate dimissioni. Come si era permesso il direttore di pubblicare, senza nemmeno avvertirlo, la lettera inviata da un lettore che aveva firmato con lo pseudonimo La Bemolle, facendo molte affermazioni del tutto in contrasto (e qualcuna perfino in aperta polemica) con i commenti del cronista teatrale ufficiale? Che cosa aveva detto di tanto polemico? Il direttore provò a smussare gli angoli e gli spigoli del suo permaloso cronista, il quale elencò una per una le affermazioni della lettera di La Bemolle che proprio non gli andavano giù. Affermazioni da giudicare poi del tutto gratuite, se proprio, al principio della lettera il lettore confessava di non essere ancora mai andato a teatro, scoraggiato dal freddo cane che faceva dentro il Teatro Comunale, e quindi di non aver ancora assistito ad una sola recita. Come poteva dire, allora, quello che diceva?

    Si capiva che la lettera era piena di provocazioni, sostenendo chi l’aveva scritta che, prima di decidersi a spendere il suo denaro per recarsi in teatro, aveva aspettato che i giudizi sulle prime recite del pubblico e della stampa fossero concordi, ma purtroppo non aveva trovato un solo punto sul quale ci fosse un sostanziale accordo. I cronisti dei vari giornali avevano detto di alcuni cantanti e delle musiche e dell’orchestra cose del tutto contrastanti, sì che lui, poveretto, non sapeva raccapezzarsi. Dell’orchestra, La Provincia aveva scritto che lasciava un po’ a desiderare quanto a finezza di colorito ed allo stacco dei tempi, il Corriere Abruzzese che era meschina e il Montecorno che, in mancanza di un violoncello, si faceva ricorso ad un violino.

Della Traviata un giornale aveva scritto che dei quattro primi violini si sentiva solo Pachini, mentre il Corriere Abruzzese aveva scritto che proprio tre dei primi violini avevano fatto di tutto per rimettere l’orchestra in carreggiata. A questo punto chi aveva scritto la lettera aveva intinto la penna nel calamaio del sarcasmo, fece notare Furio, perché aveva scritto: "... un’orchestra con quattro violini primi di cui se ne sentiva uno solo, essendo gli altri impegnati forse a rimettere la prima corda che si era spezzata per il freddo... un’orchestra meschina, che lasciava a desiderare per colorito e stacco dei tempi, senza violoncello, nella quale in tre facevano sforzi sovrumani per non naufragare insieme con il Direttore."

    La lettera proseguiva mettendo in evidenza punto per punto tutti gli argomenti sui quali i cronisti teatrali avevano espresso giudizi contrastanti. "A chi si doveva dare retta?" si chiedeva in conclusione La Bemolle, chiudendo così la lettera: "Francamente non mi ci raccapezzo più e mando alla malora tutti i giornali, i quali non potevano peggio di così imbrogliare la testa al povero pubblico per non aver voluto dar pane al pane e vino al vino".

 

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    I tentativi del direttore di far recedere Furio dalla decisione di dimettersi furono coronati dal successo, ma fu necessario assumere l’impegno solenne di consentire all’offeso cronista di rispondere come meglio avrebbe gradito. E la risposta, pubblicata sul giornale, fu giudicata da tutti una "sfuriata con tutti i tuoni", anche se iniziava con un sofferto "avevo promesso di non rispondere e mantengo la risposta fatta", che era assolutamente in contrasto con il fatto che di una risposta vera e proprio si trattava.

    La risposta vera a La Bemolle Furio la diede nelle sere successive, seduto ad un tavolo del Caffè Roma snocciolando una dietro l’altra una diecina di considerazioni canzonatorie su "Sol diesis", come lui chiamava quello che era diventato, e che considerava, il suo più acerrimo nemico. Con sarcasmo ripetette più volte ciò che aveva risposto sul giornale, che non aveva nessuna intenzione di dare dell’asino a chi riteneva che si fosse mostrato intransigente in fatto di questioni musicali mostrando però di non avere alcuna competenza in merito. Anche lui non era un virtuoso, non era stato allievo di celebri maestri, ma intendeva essere pungente e aggressivo con chi non meritava che questo. Non pochi, seduto al suo tavolo e a quelli vicini, lo stuzzicarono e riuscirono a strappargli furiose tirate contro La Bemolle, che lui si ostinava a chiamare Sol diesis.

    La Bemolle rispose alle argomentazioni di Furio, inviando una seconda lettera, pubblicata dal direttore Taffiorelli, nella quale canzonava la "suscettibilità" del cronista teatrale del Corriere Abruzzese, di cui, spiegava, non aveva voluto usurpare il posto. Specificò, infatti, che non aveva voluto fare il critico, perché, non essendo ancora andato mai in teatro, non avrebbe potuto giudicare in contumacia le rappresentazioni. Aveva solo inteso fornire alcune sue impressioni, ricavate dalla lettura delle cronache teatrali pubblicate sui giornali. Non è vero che aveva parlato di un successo completo della Traviata, aveva solo sottolineato le contrastanti opinioni dei giornali. Quanto al nomignolo affibbiatogli da Furio, Sol diesis, La Bemolle annotava: "Non saprei se, scientificamente parlando, la bemolle sia lo stesso che sol diesis e se sia più acuto o l’altro. E’ questione codesta che va risolta con le leggi di fisica sperimentale."

    Proseguendo sul tono scherzoso, la lettera aggiungeva che un povero la bemolle, colpito da un accidente, ovviamente musicale, non poteva avere né la forza né la volontà di attaccare polemiche con Furio, che era notoriamente assai "furioso". Poi faceva una sintesi dei giudizi sulla rappresentazioni, così come gli risultavano dalla lettura dei giornali: messa in scena miserabile, costumi non corrispondenti all’epoca rappresentata, orchestra inadeguata, cori che si difendevano alla meglio, tenore con voce estesa e timbro accostante, ma senza scuola, senza arte e spesso fuori tempo, baritono tale solo di nome, basso che prometteva poco e si presentava malissimo, soprano con buona presenza drammatica, ma senza voce. Questa era la realtà? Sì, a quanto pareva. Allora da che cosa nasceva tanto entusiasmo? Dal fatto che il primo a giudicare gli spettacoli a Teramo non era un giornalista, ma un giornalaio, un venditore di giornali, che, sperando di vendere molte copie, mandava i telegrammi ai giornali della capitale.

    Anche questa risposta di La Bemolle fu commentata le sere successive con divertimento dagli avventori del Caffè Roma, i quali diedero fondo a tutte le loro capacità nel canzonare Furio, che, seduto, ad uno dei tavoli, si schermiva come meglio poteva, ma non poteva resistere alla tentazione di rispondere a tutti per le rime, prendendosela con La Bemolle e con tutti quelli come lui che, insisteva, giudicavano le opere e gli artisti solo leggendo i giornali. Poi, improvvisamente svicolando da quel tema, fece una lunga tirata sul comportamento del pubblico, che, pur gradendo la Lucia di Lammemoor, non aveva rispettato il necessario decoro.

- Che cosa sono - chiese, con voce alterata - quei rumori continui, incessanti, quei lazzi da taverna, che non stanno certo bene in teatro? Che cosa sono quelle risate omeriche, sguaiate, nauseanti? E perchè tutti quegli esagerati battimani nei punti meglio eseguiti del dramma, accompagnati da urli?

Furio fu irrefrenabile sul tema per qualche sera e tutti si chiedevano se dopo quegli attacchi sul giornale e quelle pepata risposte davanti al Caffè Roma, La Bemolle avrebbe trovato nuovo coraggio per scrivere una terza lettera al direttore del Corriere Abruzzese. E, se lo avesse fatto, il direttore l’avrebbe pubblicata? E come l’avrebbe presa Furio? Se ci fosse stata una terza lettera, ci sarebbe stato certamente da divertirsi.

 

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    La polemica tra Furio, critico musicale ufficiale del Corriere Abruzzese e La Bemolle, l’anonimo lettore le cui lettere polemiche il direttore del giornale ospitava e pubblicava, diventò in pochi giorni l’argomento più divertente delle conversazioni di quanti si trovavano seduti ai tavoli del Caffè Roma, ogni sera di recita. Era diventata ormai un’abitudine: appena nel Teatro Comunale calava il sipario, una lenta passeggiata lungo il Corso e subito a ordinare qualche cosa di caldo ai tavoli del Caffè, commentando non solo le recite, le musiche, l’esibizione dei cantanti e delle cantanti, ma anche le ultime battute polemiche tra Furio e La Bemolle".

    Ma chi era La Bemolle? Tutti se lo chiedevano e ognuno aveva una sua ipotesi. Era forse…? O forse...? Di sé La Bemolle aveva scritto che non era un lettore di musica, essendo questo un esercizio "sui generis", ma che, anche se Furio tra le righe delle sue risposte gli dava dell’asino, aveva coltivato per molti anni la musica, prendendo anche lezioni di contrappunto. Non si reputava né un Filippi né un d’Arcais, ma nello studio della musica aveva avuto per compagno il celebre Augusto Meroder, scrittore di uno spartito che si rappresentava niente meno che al teatro della Scala di Milano. Con una punta polemica La Bemolle aveva concluso così una sua lettera: "Questi sono i miei titoli, ora chiedo a Furio quali sono i suoi?". Quando, e accadeva spesso, anche Furio, dopo le recite, si trovava seduto ad uno dei tavoli del Caffè Roma, il divertimento più grande consisteva nello stuzzicarlo, per vederlo andare "su tutte le furie" e Furio non deludeva mai. Chissà se lui conosceva la vera identità di La Bemolle?

    Certo è che diceva di lui peste e corna, assai di più di quanto non facesse sul giornale, dove certamente non poteva scrivere tutto quello che pensava. Si capiva che ce l’aveva un po’ su anche con Francesco Taffiorelli, il direttore del giornale, al quale rimproverava di dare troppo spazio e risalto alle lettere di La Bemolle, pubblicandole quasi integralmente. Ma Taffiorelli doveva aver capito che quelle lettere e quella polemica facevano vendere più copie e destava molto interesse, non solo dei lettori, ma anche di altri giornali, i quasi presero a pubblicare delle note su quella polemica.

Per esempio su la Stampa Abruzzese comparve un articolo, firmato da un certo Pallano, nel quale si diceva che l’ultima nota polemica di Furio contro La Bemolle era stato "una sfuriata in tutti i tuoni" e che, "senza uscire di chiave", si poteva dire che la "cantata di Furio" cadeva proprio "a rigore di bacchetta". Riprendendo questa nota, e pubblicandone uno stralcio sul Corriere Abruzzese, nella sua rubrica Theatralia, Furio si compiaceva che qualcuno, come scrisse, che pure non conosceva, gli desse ragione e testimoniasse come la verità si potesse intravedere sia pure da lontano. Poi, venendo meno alla promessa che aveva fatto di non rispondere più a La Bemolle, precisava di non avere avuto l’intenzione di dargli dell’asino, ma solo quella di avere rispetto per la competenza musicale.

    Richiamava con sarcasmo il fatto che La Bemolle, tra i suoi titoli in campo musicale, non avesse di meglio che citare il fatto di essere compagno di scuola del maestro de Meroder. Furio aggiunse che ammetteva di essere nella polemica pungente ed aggressivo, di usare un riso più o meno mefistofelico, ma che mai, nemmeno nella polemica con La Bemolle aveva cessato di mostrarsi "cavaliere" e che, se qualcuno fosse stato capace di dimostrare il contrario, egli era disposto ad espiare vestendosi in pieno carnevale con un sacco, di spargersi il capo di cenere e di andare gridando per le vie traverse della città, come un ossesso il "mea culpa". Nelle sue sparate contro La Bemolle, stando seduto al suo tavolo del Caffè Roma, Furio era assai meno "cavaliere" e si mostrava addirittura bilioso. Poi insisteva nei temi che gli erano consueti, accapigliandosi con chi sosteneva il contrario. Secondo lui, occorreva fare qualche cosa per risolvere una volta per tutte il problema del comportamento del pubblico teramano durante le recite. Perché quei rumori continui, incessanti, perché quei lazzi da taverna, quelle risate omeriche, sguaiate, nauseanti? A quale specie di mania si doveva il pessimo uso di coprire con urla e battimani i punti meglio eseguiti del dramma musicale, ancor prima che gli interpreti avessero finito di cantare? E perché quell’insistenza nel chiedere il bis di certe scene intere, la cui ripetizione uccideva l’artista? Era questo un comportamento degno di un pubblico intelligente? E perché schiamazzare tanto per un coro di donne, che sono la rovina dei cori? Era questo decoroso e giusto?

    - Se si è ubriachi - continuava a ripetere ad alta voce Furio - si vada a letto, e non a teatro.

    Poi si serviva di altre colorite espressioni per stigmatizzare quanti si recavano a teatro con l’intenzione di degradare i teramani davanti ai forestieri, i quali, per le scomposte, inconsulte dimostrazioni di pochi sconsiderati, avevano tutto il diritto di ritenere che i teramani, tutti i teramani, fossero dei selvaggi. Si doveva prendere esempio dalla vicina Ascoli, dove per parecchie sere di seguito aveva personalmente assistito alle rappresentazioni del Mefistofele e aveva potuto ammirare e compiacersi della serietà del pubblico ascolano e della serietà della locale deputazione teatrale. E dire che tra Ascoli e Teramo non c’era che un passo.

    Quando, nel bel mezzo di queste sue sparate contro il pubblico, qualcuno lo interrompeva e lo riportava sul tema della polemica con La Bemolle", Furio non sembrava accorgersi dell’intenzione di chi lo faceva e cadeva ogni volta nella provocazione, riprendendo la sua vena polemica e lanciando nuovi strali contro le ultime annotazioni che s’erano lette sul giornale di quell’anonimo incompetente, come lo chiamava "apertis verbis" stando seduto al tavolo del Caffè Roma, e contrastando punto per punto ogni osservazione.

    - Bisogna dire le cose come stanno - tuonava. - Chiamiamo le cose col loro vero nome. Diciamo pane al pane e vino al vino.

    Si mostrava fedele a questa sua dichiarazione d’intenti anche quando commentava, e lo faceva spesso, le toilettes delle signore che si recavano in teatro e le "mises" delle interpreti (di quelle degli interpreti se ne curava di meno). Non poche volte descriveva con sarcasmo alcuni abiti belli, ma sfoggiati con poca grazia, o altri abiti indossati con grazia, ma brutti. Qualche volta si lasciava prendere la mano, davanti ad abiti bellissimi indossati con leggiadria da signore assai belle, e allora la sua penna prendeva il volo, per descrivere le sue visioni di sogno. Una sua cronaca terminava con il suo pensiero che si perdeva dietro "visioni delle nordiche leggende", alla vista e al ricordo di una bellissima cantante che aveva "la bocca di melagrana e le gote di porpora soffusa", oltre che la voce del cigno quando canta l’inno supremo della vita".

    Il ricordo di quella visione doveva essere veramente assai vivido e struggente, se la cronaca si concludeva con un accento di conciliazione perfino per l’odiato La Bemolle: "Buona notte, La Bemolle, buona notte, io vado a letto. E tu ? Buona notte…"    

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