LA CITTA' DEI RICORDI

di Elso Simone Serpentini

Il predicatore galante

 

Tutta la comunità di Montorio avvertì quell’anno, il 1885, il bisogno quasi imprescindibile di un predicatore per gli esercizi spirituali che risultasse di grande soddisfazione per tutti. L’anno precedente ne era arrivato uno che aveva lasciato molto a desiderare quanto a disinteresse per il vile denaro. Si era mostrato solo attaccato ai soldi e non aveva fatto altro che chiedere denaro a tutti.

    Due anni prima c’era stato un predicatore giunto dalla Ciociaria che con il suo accento induceva alle risate, durante le sue prediche, più che alla concentrazione e alle preghiere. Quello di tre anni prima non si reggeva in piedi per quanto era malaticcio ed erano state più le volte in cui aveva fatto sapere di non essere in grado di predicare che quelle in cui aveva effettivamente predicato. Quell’anno, dicevano tutti, ci voleva un predicatore coi fiocchi. Che voleva dire un predicatore sano, non malaticcio, dalla parola affascinante, senza inflessioni dialettali, che rispettasse gli impegni presi e che non si mostrasse troppo attaccato al denaro. Insomma: ci voleva un santo.

   Ecco, appunto, un santo. Fu questa l’espressione usata dall’arciprete di Montorio, quando annunciò che, grazie ad alcune amicizie e a certe sue conoscenze, era riuscito a fasi promettere che sarebbe arrivato da Ripatransone, dove si trovava, insegnante di filosofia nel locale seminario, un vero santo. Uno bravo, che eccelleva per sapienza, per eloquenza, per salute. Era giovane, ma non troppo, era sano come un pesce, era preparato in dottrina quanto nessun altro.

 

 

 

 

  Quando arrivò a Montorio, piacque subito a tutti. L’arciprete lo accolse con grande cortesia, si intrattenne a colloquio con lui, gli descrisse le particolarità della comunità locale e che cosa la gente che andava in chiesa per gli esercizi spirituali si attendeva da lui. Don Vittorio, perché così si chiamava, era la migliore scelta che si potesse fare. Era una fortuna per Montorio che l’arciprete avesse qualche buona conoscenza in Paradiso per far arrivare finalmente un predicatore come quello. Gli esercizi spirituali cominciarono ad andare a meraviglia. La chiesa era affollatissima in quei giorni di preghiera e di penitenza. Un gran numero di fedeli accorse ad ogni sua predica e ognuna di esse fu più toccante di tutte quelle precedenti, che già erano risultate tanto toccanti e commoventi. Tutte le donne accorrevano e si affollavano al confessionale del predicatore, che si rivelava sempre più buono e bravo, oltre che simpatico. Facevano a gare a chi si dovesse confessare per prima. Piaceva alle pecorelle di Montorio quel pastore che non infondeva la disperazione dell’anima, non spalancava le porte dell’inferno, ma aveva modi cortesi e benevoli, sapeva perdonare come Cristo alla Maddalena e faceva assaporare il dolce tepore della grazia divina. All’orecchio dell’arciprete, però, coninciò ad arrivare qualche vocina, che lo mise in guardia.

   Il predicatore, ad una penitente che aveva confessato di tradire il marito con un uomo d’età avanzata, aveva consigliato, se proprio voleva continuare a farlo, di scegliere almeno bene e di tradirlo con un giovane. Ad una ragazza, sempre in confessionale, aveva detto che l’amore non era sempre peccato, e aveva ricordato i versi del poeta: "Amor che a nullo amato amar perdona…" Ma l’entusiasmo per Don Vittorio delle donne di Montorio, specie le più giovani, continuava ad essere grande.

   Fu evidente che molte si erano infatuate di lui al punto da cominciare a dare scandalo, perché mostravano di idolatrarlo e si appostavano perfino di notte sotto le sue fnestre. Gli esercizi spirituali cominciarono ad essere turbati da molti aspetti che proprio spirituali non parevano, soprattutto quando si sparse la voce che con alcune pecorelle, nubili e maritate, ma tutte giovani, Don Vittorio praticasse un altro tipo di esercizi.

   L’arciprete non raggiunse la certezza di ciò che gli riferivano le malelingue, ma prese lo stesso una decisione: quel predicatore non andava più bene per Montorio. Lo chiamò e, senza dargli molte spiegazioni, gli ingiunse di fare fagotto per Teramo e, qui giunto, prendere il primo treno. Così il predicatore troppo galante fu costretto a partire.

   Il giorno successivo, però, un povero padre si recò dall’arciprete a denunciare la scomparsa della sua giovane figlia, aggiungendo di aver saputo che si era allontanata da Montorio in compagnia del predicatore. La pecorella smarrita tornò a casa due giorni dopo, confessando di essere partita insieme con il predicatore, il quale, disse, voleva trovarle un’occupazione e un alloggio a Teramo, ma poveretto, non ci era riuscito, pur essendo gentile e pietoso. Avevano così preso alloggio a Teramo, nella locanda Corona di ferro, nella stanza n. 6, restandovi due giorni. Ne diede conferma il locandiere, il popolare "Lupinìtte", precisando che l’ospite della camera n. 6 aveva mangiato e bevuto di gusto, mostrandosi allegro e spiritoso, rammaricandosi solo che la locanda non fosse dello stesso livello degli alberghi delle grandi città. Gli alberghi di Milano e di Parigi, quelli sì che erano stupendi, aveva continuato a ripetere. Tra l’altro in quegli alberghi, aveva aggiunto, secondo quel che riferì "Lupinìtte", c’erano a servizio delle belle ragazze, che incantavano con la loro gentilezza, sia bionde che brune, alle quali era un piacere cantare: "Come son belli i tuoi capelli d’oro, i tuoi capelli sul bianco sen fluenti" oppure "Vorrei baciare i tuoi capelli neri, le labbra tue e gli occhi tuoi severi. Stringimi, o cara, stringimi al tuo cuore, fammi provar l’ebbrezza dell’amore."

   "Lupinìtte" riferì che l’ospite aveva proprio una bella voce e che cantava con grande trasporto. Circa una settimana dopo, giunse nella locanda Corona di ferro, una donna civilmente vestita e chiese a "Lupinìtte" se era giunto un forestiero con il treno di mezzogiorno.

   - No, mia bella signora - rispose "Lupinìtte".

   - Se arriverà - disse lei - e prenderà la camera n. 6, ditegli che sono venuta qui e, non avendolo trovato, sono ripartita.

   "Lupinìtte" si trovò a raccontare della strana visita al suo amico, Francesco Taffiorelli, il direttore del Corriere Abruzzese, al quale, il giorno dopo, fu riferito un altro episodio alquanto strano. Si era visto passare per Teramo un legno chiuso, tirato da due non focosi destrieri, e predere la via di Montorio. Si era fermato a mezzo chilometro dal paese. Dentro c’era un giovane, signorilmente vestito, senza barba, il quale aveva pagato profumatamente una persona che si era trovata a passare purché consegnasse una sua lettera ad un certo indirizzo.

   Il messo era poi tornato e aveva consegnato allo sconosciuto giovane una lettera di risposta, che lo sconosciuto aveva aperto all’istante, rimanendo con un’espressione sconcertata dopo averla letta. Aveva poi ordinato al cocchiere di riportarlo subito a Teramo. Qui le sue tracce si erano perse.

Dalla descrizione dei due episodi, quello riferitogli da "Lupinìtte" e quello relativo allo sconosciuto viaggiatore andato a Montorio, senza entrarvi, e subito tornato a Teramo, Taffiorelli trasse motivo per formulare un’ipotesi, che volle pubblicare sul suo giornale, parlando di un tentativo di ratto di una giovane montoriese che il predicatore galante di Montorio, la cui fama era giunta fino a lui, aveva certamente compiuto. Se non si trattava di questo, si trattava della conclusione di un’avventura galante.

   Che ne pensava, si era poi chiesto il direttore Taffiorelli a conclusione del suo articolo, il vescovo Monsignor Milella, a cui l’arciprete aveva riferito tutto e che aveva scritto una lettera di fuoco al vescovo di Ripatransone, rimproverandolo per aver spedito in mezzo alle sue pecorelle un pastore che si era rivelato un lupo vorace?

 

^^^

   Monsignor Milella, il vescovo di Teramo, era fuori dai gangheri e scrisse lettere di fuoco al vescovo di Ripatransone, lamentandosi per il fatto che gli aveva mandato quel predicatore troppo galante, spedito con troppa fiducia a Montorio.

   "Le nostre vigne le coltiviamo noi e non devono venire da altre diocesi a vendemmiare" scrisse in una lettera Monsignor Milella. Certamente il sant’uomo non si rese conto, nella sua grande ingenuità, che le sue parole si prestavano a maliziose interpretazioni, che infatti non mancarono. Come potevano fare gli ambienti anticlericali della provincia a resistere alla tentazione di sganasciarsi dalle risate e di chiedere se le povere pecorelle di Montorio, tra le quali era stato mandato un lupo in veste di predicatore, il Vescovo di Teramo le considerasse adesso come dei grappoli d’uva che preti e confessori dovevano vendemmiare? Le polemiche sembrarono cessare quando a Teramo e a Montorio si seppe che il predicatore, Don Vittorio, era stato cacciato dal seminario e poi, nonostante la protezione del vescovo, sospeso "a divinis".

   Qualche tempo dopo, Francesco Taffiorelli, direttore del Corriere Abruzzese se ne stava una mattina seduto ad un tavolo, davanti al Caffè Roma, leggiucchiando un giornale, quando gli si avvicinò un signore, che gli chiese se conoscesse il direttore del Corriere Abruzzese.

   - Sono io, eccomi qua - rispose, sorpreso, Taffiorelli.

   - Piacere di fare la sua conoscenza - rispose l’uomo, porgendogli la mano. - Io sono Don Vittorio Ambrosio, il famoso predicatore di Montorio.

Taffiorelli fu ancora più sorpreso.

   - Ah, lei! replicò, mentre lo squadrava da capo a piedi.

   Era un giovane che aveva da poco passato la trentina, con un costumetto a righe, cappello a sghimbescio, barba ben rasata e capelli tagliati "alla brutus", come si soleva dire. Aveva occhi neri ed intelligenti, sorriso sulle labbra e sigaretta in bocca. Taffiorelli lo invitò a sedersi al suo tavolo, gli offrì un caffè.

Don Vittorio accettò e poi, dopo averlo sorbito con gusto, entrò subito in argomento.

   - Ho letto a Grottammare il suo giornale e ho trovato un articolo che mi riguarda, che mi ha profondamente addolorato. Non per me, ma per lo scandalo dato ai credenti. Tutto quello che lei ha scritto e che le hanno riferito è inesatto. Molte sono addirittura false.

   - Sono false anche le conquiste femminili fatte a Montorio? -chiese con sarcasmo Taffiorelli.

   - Anche le conquiste. Cioè, mi spiego…sono state simpatie che ho incontrato in quel gentile paese, specialmente nel ceto delle…

   -…delle pecorelle smarrite - lo interruppe Taffiorelli.

   Don Vittorio sorrise, tacque per qualche secondo poi disse: - Siano pure pecorelle, caro direttore, ma che vuole? Io, dovunque vado, sono fortunato. Sarà il mio sguardo, saranno i miei capelli inanellati, o la zimarra del prete, certo è che le donne mi si litigano e ci vuole tutta la mia costanza, tutta la mia fermezza, per resistere alle loro tentazioni. A Montorio, poi, si è arrivati al colmo. Non c’è una donna che…

   - Dica, dica Don Vittorio, dica pure.

   - Non pensi a male. Non c’è una donna che non sia venuta a confessarsi da me, e tutte di me erano prese alla follia. In questi giorni mi sono giunte da Montorio un centinaio di lettere. In una di esse, giunta l’altro ieri, una donna, dopo aver letto il suo giornale, mi ha scritto:..

   - Che cosa le ha scritto?

   - Mi ha scritto: «Dio mio, se fosse vero… Io amavo voi come amavo Gesù».

   Francesco Taffiorelli era perplesso. Il personaggio che aveva davanti era addirittura più sfacciato di come se lo era immaginato quando aveva deciso di pubblicare sul suo giornale un articolo su di lui. Gli chiese:

   - Ma mi dica, che fece di quella ragazza che trasse da Montorio?

   - Una ragazza? - chiese con un tono canzonatorio Don Vittorio. - Furono due le ragazze che portai a Teramo da Montorio.

   Taffiorelli trasalì. Ma rimase in silenzio, rimuginando i suoi pensieri. E l’altro proseguì:

   - E tutte e due cercai di sistemarle. Una presso le monache dell’ospedale.

   - E l’altra? - chiese Taffiorelli.

   - L’altra nell’orfanotrofio femminile.

   - E non ci riusciste a sistemarle doveva avevate pensato?

   - No, non ci riuscii.

   - E così decideste di portarle con voi alla locanda…

   Questa volta Don Vittorio non rispose, Si limitò ad alzare le spalle, come a voler dire: "Che cosa potevo fare di diverso?" Taffiorelli non disse nulla. Il suo silenzio dovette sembrare insostenibile all’ex predicatore galante, il quale dopo un po’ disse: - Insomma, mio caro direttore, devo essere sincero. Sono la apparenze che ingannano. Sul mio conto ci sono state tante chiacchiere malevoli, ma nella sostanza non c’è nulla.

   - Allora perché il vescovo di Ripatransone, che pure vi benvoleva e vi proteggeva, vi ha mandato via dal Seminario?

   - Ha commesso un’ingiustizia - rispose Don Vittorio. - una vera ingiustizia".

   Voleva sembrare convincente, ma si rendeva conto che non lo era e che Taffiorelli convinto non lo era per niente. Così rialzò nuovamente le spalle, con una mossa curiosa, e aggiunse:

   - E poi, mio caro direttore, chi di noi non è colpevole scagli la prima pietra.

   A modo suo era simpatico. Taffiorelli guardò il suo orologio. Era tardi. Doveva andare al giornale. Aveva deciso che su quell’incontro avrebbe scritto un altro articolo. Quando, alzandosi dal tavolo del Caffè Roma, invitò il suo interlocutore a seguirlo negli uffici del Corriere Abruzzese, per continuare il loro colloquio, pensò che l’altro non avrebbe accettato il suo invito. Ma si sbagliava, perché Don Vittorio accettò.

   Seduto davanti a lui, nel suo ufficio, l’ex predicatore sembrava ancora più sfrontato. Ogni tanto sorrideva e mostrava un sorriso accattivante, continuando a fumare una sigaretta dietro l’altra. Parlarono del più e del meno, poi Taffiorelli disse:

   - Ho sentito che a San Petronio di Bologna c’è un altro predicatore celebre.

   Don Vittorio scoppiò in una sonora risata. Poi esclamò: - Purtroppo anche io, nel mio piccolo, sono stato celebre… Rise ancora e aggiunse:

   -... a Montorio.

   Non si poteva dire che non si compiacesse di quella auto-ironia. La sua conversazione era piacevole e Taffiorelli ne trasse godimento. Don Vittorio, ex predicatore galante, era un giovane piacevole e gaio. Ad un certo punto, cavò dalla sua tasca alcune carte e le mostrò a Taffiorelli.

   - Leggete - disse. - Leggete. Sono certificati di moralità, rilasciatimi dalla Curia di Ancona.

   Taffiorelli guardò i certificati. Avevano una data precedente a quella del suo arrivo a Montorio. Glielo fece notare. Don Vittorio continuò a ripetere che cacciarlo dal seminario e sospenderlo "a divinis" era stata un’ingiustizia.

   Quando ripartì con il treno delle 4,20, Taffiorelli restò ad osservarlo, affacciato al finestrino, che lo salutava, sempre sorridendo. Chissà perché era andato ad accompagnarlo alla stazione ferroviaria. Quando tornò al giornale, cominciò subito a scrivere il resoconto di quello strano incontro per il numero che sarebbe andato in stampa quella stessa sera.

 

^^^

   Le dicerie e le chiacchiere maliziose sul predicatore galante di Montorio, Don Vittorio Ambrosio, cacciato dal seminario dove insegnava filosofia e sospeso "a divinis" dal vescovo di Ripatransone non cessarono, né a Teramo, né a Ripatransone. Anzi, si fecero via via sempre più maliziose ed insistenti. Così l’ex predicatore decise di passare al contrattacco presentò una querela per diffamazione nei confronti di un suo collega, Don Felice Nuzi, nel quale individuò colui che più di ogni altri metteva in giro sul suo conto delle calunniose affermazioni. Così giunse il giorno in cui la querela fu trattata davanti al Pretore del mandamento di Ancona.

   Francesco Taffiorelli, direttore del Corriere Abruzzese, che aveva conosciuto il discusso predicatore e aveva aparlato a lungo con lui il giorno in cui lo aveva incontrato a Teramo, tutto desideroso di volersi spiegare, prima davanti al Caffè Roma e poi nel suo ufficio al giornale, fu in seguito ampiamente informato su come erano andate le cose da un suo collega, il direttore del giornale anconetano L’Ordine, che era stato personalmente presente alla causa discussa in Pretura e ne pubblicò un resoconto sul suo giornale.

   L’ex predicatore dopo la sospensione "a divinis" aveva gettato alle ortiche il suo abito talare e, seduto a fianco del suo avvocato, si era trasformato in un "elegante zerbinotto", con folti baffi scuri, capelli folti e ricciuti, vestito alla moda.

Nelle pause dell’udienza era andato facendo domande a tutti, anche ai testimoni; durante il dibattimento seguiva ogni cosa con grande attenzione, distribuendo sorrisi e mostrandosi solo di tanto in tanto un po’ nervoso, quando qualcuno dei testi riferiva sul suo conto episodi dai quali sembrava certificata quanto meno la sua poca moralità.

   L’imputato, il suo presunto diffamatore, Don Felice Nuzi, era sembrava al suo confronto un poveretto capitato in Pretura per caso e per sua disgrazia. Aveva continuato a guardarsi intorno smarrito e intimorito come se sul suo capo stesse per abbattaersi con grande severità in giudizio divino. Stava seduto all’altra estremità del tavolo, opposta a quella nella quale si trovava seduto Don Vittorio. Anche Don Felice era seduto accanto ai suoi due avvocati, Bernardi e Guarino padre.

   Su che cosa si basavano le accuse di diffamazione che Don Vittorio rivoleva a Don Felice? Quest’ultimo, fu accertato, aveva detto al parroco di Varano, che aveva testimoniato in tal senso in Pretura, che Don Vittorio, prima di essere sospeso dal vescovo, era un birbante. Aveva poi riferito nella scuola municipale alla maestra, alla presenza di un’alunna, che Don Vittorio nello scorso carnevale si era recato ad Ancona, a far festa, senza abito talare, ma in abito civile, anzi mascherato, in compagnia di alcune belle donnine.

   La deposizione del teste, il parroco di Varano, era risultata contraddittoria e per di più contraddetta da quella di un altro teste, il quale giurava che nello stesso giorno in cui si voleva che Don Vittorio stesse a festeggiare il carnevale ad Ancona, lo aveva visto a Ripatransone, mentre si dirigeva, in compagnia di una giovane, verso la Grotta di Santità, che si trovava a poca distanza dal paese. Era quella Grotta un ritrovo abituale delle coppiette che volevano commettere peccato mortale.

   L’accusato di diffamazione, Don Felice, aveva fatto citare in Pretura numerosi testimoni, perché confermassero che quanto egli era accusato di aver riferito sul conto di Don Vittorio corrispondeva alla verità. Un teste aveva dichiarato al Pretore che Don Vittorio, mentre stava nel seminario di Ripatransone in qualità di insegnante di filosofia, aveva fatto sparlare molto di sé, dando scandalo, e gli erano state attribuite numerose avventure galanti. Non solo, ma dentro la scuola aveva tenuto ragionamento sulle più belle ragazze del paese e davanti ai suoi alunni, poveri seminaristi, scandalizzati dal suo contegno.

   Una volta, aveva detto un altro teste, Don Vittorio prima di dir messa aveva bevuto il "mistrà". Un altro teste aveva dichiarato che bene aveva fatto il vescovo di Ripatransone a cacciarlo dal seminario e a sospenderlo "a divinis". Erano stati citati davanti al Pretore di Ancona anche alcuni testi di Montorio, i quali si erano uniti al coro di accuse. Essi erano stati concordi nel riferire che, inviato quale predicatore nel loro paese, in tempo di quaresima, Don Vittorio si era mostrato troppo galante, mostrando di voler continuare il carnevale, Le sue prediche avevano fatto furore in mezzo alle belle montoriesi, che erano accorse sempre più numerose al suo confessionale.

   Il direttore de L’Ordine assicurò a Francesco taffiorelli che, insieme ad alcuni articoli di giornale riguardo alle avventure galanti di Don Vittorio, erano stati letti anche gli articoli che lui aveva pubblicato sul Corriere Abruzzese. E com’era finita la causa? L’avvocato della Parte Civile aveva insistito per la condanna, ma il Pubblico Ministero e i difensori avevano sostenuto che non vi era stato reato.

   Il Pretore aveva mandato assolto Don Felice e aveva condannato alle spese Don Vittorio. Ma, aggiunse, il direttore de L’Ordine si sarebbe presto discussa davanti allo stesso Pretore un’altra causa, perché Don Vittorio aveva presentato querela anche nei confronti di una leggiadra signora presso la quale aveva alloggiato. Ma che cosa era avvenuto? Il collega non seppe dirglielo con sicurezza, assicurandogli soltanto che sarebbe stata sicuramente una causa "piccantissima".

   In che cosa consistesse la causa Taffiorelli venne in seguito a saperlo da un altro collega, de Il Messaggero, il quale lo tenne informato sia sui fatti della causa sia sul suo esito. Dunque, era avvenuto che l’ex predicatore galante, pochi giorni dopo la sua sospensione, era stato alloggiato ad Ancona da una signora, di riconosciuta leggiadria.

   Quali fossero stati con precisione i rapporti tra i due non lo si poteva stabilire con certezza, anzi, aveva cercato di stabilirlo il Pretore, il quale si era trovato di fronte non ad una, ma a due querele. La prima era stata presentata dalla signora contro l’ex prete per offesa al pudore, la seconda era stata presentata dall’ex prete contro la signora per percosse. Nella prima la querelante asseriva che l’ex prete fin dal primo giorno in cui lo aveva ospitato in casa sua aveva tentato con ogni sorta di mezzi di procacciarsi i suoi favori, senza mai riuscirvi.

   - Ma a che titolo lo avete ospitato? - aveva chiesto il Pretore.

   La signora aveva escluso che gestisse una locanda, una pensione o qualcosa del genere, che affittasse camere a giorni o a ore, ma non aveva saputo spiegare perché avesse accolto quell’ex prete, ch’ella sapeva benissimo essere stato cacciato da poco dal seminario. Aveva escluso però di averlo ospitato come proprio amante, anzi, aveva insistito nel dire che l’uomo aveva ben provato a diventare il suo amante, ma non lo era mai stato.     

    Nella sua querela, Don Vittorio aveva sostenuto che la donna lo aveva ospitato vedendolo in difficoltà dopo la sua sospensione e aveva avuto compassione e benevolenza nei suoi confronti. Davanti al Pretore aveva escluso di aver cercato con ogni mezzo di procacciarsi i favori della donna e aveva sostenuto di aver perpetuato anche dopo la sospensione e l’abbandono dell’abito talare la sua castità.

     Il Pretore, alla fine, non trovando elementi certi di reità né nei confronti dell’uno né nei confronti dell’altra, aveva mandato assolti entrambi, salomonicamente. E Taffiorelli se ne compiacque, perché, in fondo, quando ci aveva parlato, aveva provato simpatia per quel piacevole birbante, un predicatore per il quale a suo tempo, in tempo di quaresima, tutta la popolazione femminile di Montorio aveva perso letteralmente la testa.

^^^

     Del predicatore di Montorio tornò a parlare il "Corriere Abruzzese" il 7 settembre 1889, dicendo che non era più prete e che da Roma aveva fatto pervenire al giornale un biglietto di partecipazione di nozze, in cui si leggeva: "Il Prof. Ambrosia Vittorio ed Elisa Guarneri si pregiano partecipare a S.V. il loro già seguito matrimonio il 5 settembre 1889". La nota del giornale concludeva: "Buona salute e figli maschi".

 

 

indice