LA CITTA' DEI RICORDI

di Elso Simone Serpentini

La truffa alle monache

 

Fin dal 1890 le suore del Monastero di San Giovanni di Teramo erano assai preoccupate, perché il Municipio minacciava di espellerle dal convento, che era di sua pertinenza. Tra le religiose c’era Suor Scolastica Cozzi, la quale espresse in più occasioni i timori suoi e delle altre religiose alla sorella Giuseppina, 49enne. Questa, a sua volta, ne parlò con la cognata, la 46enne Concetta Taffiorelli, fu Tommaso, nativa di Penne. Fu quest’ultima a ideare e a proporre a Giuseppina Cozzi un piano per sfruttare a proprio vantaggio le preoccupazioni delle monache e soprattutto per trarre profitto dal fatto che la Badessa, Suor Irene Mancini, era al tempo stesso la più preoccupata per il minacciato sfratto ma anche nota come "donna di mente debole".

    Il piano era tanto ingegnoso quanto "criminoso". A Suor Irene fu dato a credere che vi era un ricco signore, tale Raffaele Cimini, residente ad Ascoli, possessore di beni anche a Teramo e Giulianova, il quale aveva deciso di destinare alla beneficenza le sue ricchezze. Cimini, interessato alla vicenda delle povere suore minacciate di sfratto, aveva promesso di acquistare il Monastero e di donarlo alle stesse religiose, alle quali sarebbe stato anche affidato un Orfanotrofio per orfanelle milionarie, che sarebbe stato istituito. Inoltre il ricco benefattore avrebbe donato alle suore paramenti sacri e altri oggetti di rilevante valore.

 

 

   Così assicuravano a Suor Irene Concetta Taffiorelli e Giuseppina Cozzi. Le quali, per dare carattere di maggiore veridicità a quanto da loro asserito, fecero pervenire alla Badessa delle lettere a nome di Raffaele Cimini, lettere che erano elle stesse a spedire. Nelle lettere, dopo aver ribadito più volte le proprie promesse, lo scrivente, con il pretesto che per le spese di trasferimento di proprietà del Monastero occorrevano dei quattrini, prese a richiedere somme sempre più ingenti. E i quattrini furono spediti, all’indirizzo indicato nelle lettere, così come numerosi doni e perfino un quadro rappresentante l’effigie di San Raffaele, del valore di 250 lire.

   Complessivamente dal 1895 al settembre 1897 furono inviati al sedicente Cimini oltre diecimila lire. Complici delle due donne furono i figli della Taffiorelli, il 19enne Eduardo De Carolis e il 13enne Tommaso De Carolis. Quest’ultimo era incaricato di scrivere le lettere a nome Raffaele Cimini, il primo andava personalmente al Monastero a consegnare le lettere e a far credere che Raffaele Cimini e le sue ricchezze esistessero veramente.

   Della truffa fu complice anche una ingenua giovinetta, nipote di Suor Germana Cozzi, Amalia Cozzi, la quale, innamorata del giovane avvocato Pietro Sarti e sperando di sposarlo, fu facilmente convinta che, con le ricchezze del Cimini, ella avrebbe potuto farsi una dote che le avrebbe consentito di realizzare più facilmente il suo intento. E, in vista di questo obiettivo, le fu chiesto, sempre a nome di Raffaele Cimini, di consegnare i suoi risparmi, ammontanti complessivamente a 650 lire.

   Quando Amalia Cozzi e le suore si resero conto di essere state ingannate e appurarono che Raffaele Cimini non esisteva né esistevano le sue ricchezze e che la promessa di acquistare il Monastero non era altro che una invenzione, presentarono una denuncia. Questa portò a una complessa istruttoria, nel corso della quale furono chiamati a deporre molti testimoni e risultarono imputati di truffa ai danni di Maria Placida Mancini (Suor Irene) e Amalia Cozzi, Concetta Taffiorelli, i suoi figli Tommaso ed Eduardo, suo marito, il 42nne Federico De Carolis, nativo di Gaeta, Giuseppina Cozzi e suo marito, Giuseppe De Carolis, fratello di Federico.

   Giuseppina Cozzi si giustificò dicendo di essere in buona fede e che era stata la cognata, Concetta Taffiorelli, a farle credere che Raffaele Cimini esistesse veramente e che con le sue ricchezze volesse beneficare le monache. Ma la Taffiorelli, suo marito e i suoi figli, confessando la truffa, dichiararono al giudice istruttore che l’anima ne era stessa proprio Giuseppina Cozzi, che aveva intessuto la trama con la quale era stata ingannata la Badessa, Suor Irene Mancini.

   Anche altri testi sostennero che il ruolo centrale di tutta la vicenda era stato svolto proprio da Giuseppina, la quale di soppiatto concertava il tutto in casa della Taffiorelli. Quest’ultima, tuttavia, era chi aveva tratto i maggiori frutti, in quanto la Cozzi aveva usufruito solo in piccola parte del denaro e dei doni carpiti al Monastero. 

   Eduardo e Tommaso De Carolis confessarono ogni cosa, svelando sia il proprio ruolo che quello della madre e della zia. Federico De Carolis sostenne di essere rimasto del tutto all’oscuro di quanto sua moglie e sua cognata tramavano ai danni delle suore. Ma il Giudice gli contestò che non poteva esserne stato all’oscuro e che non poteva non essersi avveduto che in casa sua entrava tutta quella roba e che non poteva ignorarne la provenienza. D’altro canto egli stesso ne faceva largo uso, vivendo assai agiatamente; i suoi pasti erano assai lauti e faceva spesa di vino per sé e per i suoi amici. Non avrebbe potuto certamente permetterselo con il suo solo magro stipendio, che ammontava a 200 lire mensili, e con una famiglia composta da cinque persone.

   Il giudice accertò anche, e contestò a Federico De Carolis, che egli, nel 1895, proprio quando sua moglie aveva iniziato a carpire denaro alle monache, aveva saldato in una sola volta, anziché continuare ad estinguerlo con rate da 20 lire mensili, un suo debito di 200 lire con una maestro muratore che gli aveva costruito un casino a Giulianova. Successivamente, nel 1896, egli aveva fatto riparare il casino pagando in tre rate 900 lire complessive. Gli era stato anche sequestrato un libretto postale con un avanzo di 150 lire, ma che originalmente era di 1500 lire. Da dove gli derivava tutto quel denaro ? Federico De Carolis non seppe spiegarlo e il giudice gli contestò che proprio in quel periodo in cui lui accumulava tutti quei quattrini, sua moglie e sua cognata avevano carpito alle monache di San Giovanni diecimila lire.

    Il giudice istruttore, al termine dell’istruttoria, chiese il rinvio a giudizio di tutti gli imputati, eccetto Giuseppe De Carolis. Per lui non si erano trovate prove sufficienti che fosse al corrente della truffa compiuta ai danni delle monache da parte di sua moglie Giuseppina Cozzi e di sua cognata, Concetta Taffiorelli. Quest’ultima aveva sempre fatto la parte del leone; in casa sua veniva ordita la trama e arrivavano il denaro e gli oggetti carpiti alle religiose. Inoltre egli aveva sempre continuato a vivere miseramente nel tempo in cui la truffa veniva consumata. Questi furono i motivi che indussero il giudice istruttore a proscioglierlo dalle accuse per difetto di indizi, su parere conforme del P.M.

    La sentenza del Giudice Istruttore dispiacque assai al 19enne Edmondo De Carolis, il quale ne trasse motivi di odio nei confronti dello zio Giuseppe, per il fatto che fosse stato il solo ad essere prosciolto, mentre tutti gli altri erano stati rinviati a giudizio. Così cominciò a portarsi dalla sua abitazione, situata in Vico Sant’Agostino, fino a quella dello zio Giuseppe, che si trovava in Via del Carmine, e da qui, ogni volta che lo zio usciva, gli andava dietro, tempestandolo di insulti e di invettive, ad alta voce.

    Un giorno del mese di marzo del 1898 ebbe addirittura l’ardire di recarsi nell’ufficio dell’Intendenza di Finanza dove suo zio era impiegato come scrivano straordinario. Alla presenza di tutti gli altri impiegati lo coprì di insulti, dicendogli: "Sei stato la rovina della mia famiglia" e arrivando perfino a minacciarlo: "Ti devo tagliare il collo !"

     Quando un giornale satirico della città, Sor Paolo, riportò la notizia del rinvio a giudizio per la truffa alle monache di San Giovanni, Edmondo incolpò lo zio di averla fatta pubblicare e fece in modo che un altro giornale, "La Provincia di Teramo", pubblicasse una breve nota a sua firma, scritta con molta acredine, nella quale egli sottolineava che lo zio era stato prosciolto solo per insufficienza di indizi.

Edmondo finì con l’incutere un grande timore nello zio Giuseppe, seguendolo in strada sempre più da presso, passandogli di lato quasi toccandogli il fianco, guardandolo in cagnesco e provocandolo con lazzi e sogghigni. La sera del 7 giugno 1898 Giuseppe, per affrancarsi, almeno temporaneamente, dalle ingiurie del nipote, che con insistenza lo pedinava, salutò e poi si fermò a parlare con un suo amico, Giovanni Pachini, al quale manifestò le sue preoccupazioni circa le intenzioni aggressive del nipote.

    Più tardi fece lo stesso con Antonio Vicario, al quale parve convulso e pallido. Come poi avrebbero testimoniato lo studente 15enne Ernesto Martegiani, nativo di Montorio, abitante in Teramo in Via Lunga Santa Lucia, al n. 8, il 14enne Adolfo Boncori, di Teramo, abitante in Via Porta Reale, anche lui studente, e Pasquale Trippetta, fu Nicola, esercente del Caffè al Corso San Giorgio, era evidente che Edmondo provocava lo zio e lo insolentiva con il fine di suscitare uno scandalo pubblico.

    La sera successiva Edmondo, passando per Via del Trivio, incontrò lo zio, che procedeva verso il Corso dopo essere appena uscito dalla Chiesa Sant'Antonio... Tornò indietro e prese a pedinarlo, come faceva sempre. Ma questa volta non si trattò di una aggressione solo verbale. Infatti all’angolo del "Caffè Roma", con un salto lo aggredì alle spalle dicendogli: "Vigliacco ! Assassino !" e lo colpì con un coltello la cui lama gli lasciò conficcata nella regione scapolare sinistra. Il ferito gridò al soccorso e pregò un giovinetto che stava passando, Alberto Rofi, di aiutarlo ad estrarre il coltello dalla ferita che sanguinava abbondantemente. Edmondo a pochi passi di distanza se ne rimase ad assistere alla scena, mentre lo zio, indicandolo al pubblico, gridava: "Arrestatelo ! Arrestatelo!". Edmondo rispondeva: "Assassino! Traditore! Hai rovinato e disonorato la mia famiglia !".

    Accorsero le guardie di città e trassero in arresto Edmondo mentre i carabinieri, accorsi anch'essi, procedettero al sequestro del coltello. In camera di sicurezza Edmondo De Carolis dichiarò che sua intenzione era quella di uccidere lo zio Giuseppe e che, se non ci era riuscito quella sera, l'avrebbe fatto in seguito. Del coltello, disse che lo aveva trovato quello stesso giorno presso una siepe in contrada Cartecchio. Disse che lo zio, nei pressi della bottega del sig. Valentini, nel passargli davanti gli aveva detto: "Finalmente ti ho fregato e ti ho rovinato!"

    Il giovane precisò che suo zio Giuseppe, che era stato prosciolto, era invece colpevole, così come l'avv. Pietro Sarti, Amelia Cozzi e Giuseppina Cozzi, la moglie di suo zio Giuseppe. Quello che lo aveva fatto "bollire di rabbia" era che suo zio aveva continuato a camminare per strada strafottente e con il sigaro in bocca, prosciolto da ogni accusa, mentre suo padre Federico, che era innocente, era stato rinviato a giudizio. Quando lo aveva ferito, aveva detto allo zio: "Ti pago con la moneta che vali!" invece suo padre era innocente.

    Quando più tardi fu interrogato dal Giudice Istruttore fornì una versione differente, dicendo che non aveva avuto l’intenzione di uccidere, ma solo quella di ferire e che non aveva premeditato l’aggressione. Dopo aver ferito lo zio per una decisione improvvisa dettata dall’odio, si era diretto verso la caserma e, vicino alla bottega Pressanti, aveva incontrato due guardie di città, alle quali si era consegnato. Non era vero che alle guardie avesse confessato di avere avuto l'intenzione di uccidere. Ribadì che la sua intenzione era quella di dargli una lezione, per il fatto che lo zio andava sparlando sulla truffa, su suo padre Federico, su sua madre e su suo zio Francesco Taffiorelli. Quando era andato a trovarlo nel suo ufficio, gli aveva detto: "Come non ti vergogni, dopo che io ho fatto di tutto per salvar te cogli altri, cioè Sarti e Cozzi, col non dire nulla al Giudice Istruttore e anzi coll'aggravare mia madre, ora ti permetti di sparlare degli innocenti e di far scrivere articoli sul giornale "Sor Paolo", nonostante che tu hai mangiato, ti sei vestito e hai scialacquato il denaro delle monache?"

    Citò come testi a suo discarico la sua domestica Raffaela Pompei, Annina Cordone, abitante in casa Pellecchia, e il vinaio Biagio Ventura.

Il dott. Riccardo Olivieri riscontrò su Giuseppe una lesione alla regione scapolare sinistra, in direzione quasi verticale, dall'alto in basso e dall'interno all'esterno, lunga poco più di due centimetri e profonda circa quattro centimetri. Non era pericolosa per la vita ed era tale da impedire le ordinarie occupazioni per 19 giorni. Tuttavia, dai caratteri esterni della ferita, dalla veemenza del colpo, dalla localizzazione, dal fatto che il ferito stesse camminando e che fosse di statura poco più alta del feritore, si desumeva che l'intenzione dell'aggressore era stata quella di attingere parti vitali del corpo e quindi di uccidere. La lama del coltello era lunga poco meno di 15 centimetri, era bene affilata ed acuminata e rimaneva fissa nel manico mediante una molla. Era da annoverarsi certamente fra le armi insidiose.

    La Camera di Consiglio del Tribunale di Teramo (Presidente Pasquale Masciulli, giudici Luigi Ariani e Luigi Petracca) il 21 giugno 1898 rigettò la richiesta di libertà provvisoria avanzata da Edmondo De Carolis.

    Il successivo 8 luglio Il Procuratore del Re Allegri chiese la trasmissione degli atti al Procuratore Generale del Re, ritenendo che il reato commesso fosse quello di mancato omicidio e quindi di competenza della Corte d'Assise. Venne ordinata una nuova perizia per stabilire la pericolosità della ferita e l'intenzione omicida. Il 5 agosto la Camera di Consiglio ribadì trattarsi di reato di Corte d'Assise e il 13 settembre la Sezione di Accusa pronunciò il suo atto di accusa per mancato omicidio, rinviando Edmondo De Carolis al giudizio della Corte di Assise di Teramo.

In vista del processo Giuseppe De Carolis si costituì parte civile, chiedendo al Presidente della Corte D’Assise Giovanni Calmieri che fossero sentiti come testimoni Giuseppe Mancini, Giuseppe Savini e Berardo Cerulli. L’accusato inserì nella lista dei testi a discarico, tra gli altri, il prof. Vittorio Savorini, il cav. Guiducci, segretario dell'Intendenza di Finanza, il prof. Errico Bonmassari.

    Il processo in Corte d’Assise (Presidente Giovanni Calmieri, giudici Berardo Quartapelle e Luigi Messeri) ebbe inizio alle ore 8 del 6 dicembre 1898. P.M. era Pasquale Semola, difensori dell’imputato l’avv. Cesare Tanzi e l’avv. Francesco Rocco.

Per ragioni procedurali, relative alle notifiche, il processo fu rinviato al 22 febbraio 1899. Edmondo De Carolis fu riconosciuto colpevole del reato di lesione volontaria con arma insidiosa e condannato alla pena di 11 mesi e 23 giorni di reclusione.

    Il P.M. chiese che la pena fosse cumulata con quella che nel frattempo, il 29 luglio 1898, ad Edmondo De Carolis era stata inflitta dal Tribunale dell’Aquila per la truffa in danno delle monache di San Giovanni, a 8 mesi e 23 giorni di reclusione. La pena era stata anche confermata in Corte di Appello il 9 novembre dello stesso anno.

    Le due pene portarono complessivamente ad un cumulo giuridico di 1 anno, 4 mesi e 4 giorni di reclusione, che Edmondo De Carolis scontò interamente, meno 20 giorni, che furono condonati dalla Corte di Appello dell’Aquila il 10 agosto 1900.

     

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