MALATTIA MENTALE E RESPONSABILITA' PENALE *

       Nel XIX secolo, acclarata  la correlazione tra cervello e pensiero, fu compreso dagli studiosi che le funzioni cognitive più elevate si realizzavano a livello della corteccia cerebrale. Dapprima si pensò che la malattia mentale fosse unica (l’alienazione mentale, comprensiva di varie espressioni cliniche,che andavano dalla depressione alla demenza), mentre in un secondo tempo si cercò di mettere in relazione le alterazioni cerebrali e le varie forme  di malattia mentale. Il cervello veniva visto quindi come “sede” della pazzia dai medici organicistici, al pari di altre malattie che dal malfunzionamento di un organo (cuore, fegato o polmone che fosse) traevano l’origine del quadro clinico e della sofferenza. In questo senso, considerate quindi le anomalie comportamentali dovute ad un danno d’organo, si pensò di affidare tutto il “ controllo” della malattia mentale alla professione medica. Parallelamente iniziò il lungo dibattito tra psichiatri e magistrati sulla punibilità in sede giudiziaria del malato mentale che vide contrapposte la scuola classica e quella positiva di diritto. Ben presto la psichiatria invase il campo della criminologia ed il nascente positivismo ispirò gli psichiatri a ricercare segni fisici e sintomi tangibili che indicassero la malattia mentale. I positivisti in particolare accusavano i cultori delle teorie classiche di incentrare il problema sul reo e non sul reato.
  Il codice Zanardelli del 1889, stilato dopo dieci anni di intensi dibattiti parlamentari, stabilì di escludere l'imputabilità dell'autore di reato malato di mente secondo principi di stampo classico. Infatti all'art. 46 si prevedeva il proscioglimento per infermità mentale:
   Non è punibile colui che, nel momento in cui ha commesso il fatto, era in tale stato di infermità mentale da togliergli la coscienza o la libertà dei propri atti.
   Il giudice, nondimeno, ove stimi pericolosa la liberazione dell'imputato prosciolto, ne ordina la consegna all'Autorità competente per i provvedimenti di legge.
       Il grande internamento di fine ‘800, aveva comunque relegato nei manicomi italiani malati mentali e disadattati sociali di vario genere e grado. Anche le carceri del Regno erano all’epoca assai affollate. I malati mentali violenti o comunque autori di reati, erano in entrambi i luoghi un problema di non poco conto da gestire.
    Il Regio Decreto del 1 febbraio 1891, contenente il regolamento generale degli stabilimenti carcerari, stabilì per la prima volta che fossero speciali Manicomi Giudiziari ad ospitare due tipologie di malati: coloro che, prosciolti perché avevano commesso un delitto in stato di infermità mentale, vi erano stati destinati dall’Autorità Giudiziaria e coloro che erano stati colti da malattia mentale mentre erano in stato di detenzione carceraria.
   Aversa (che aveva una sezione per malati mentali già dal 1876), Montelupo Fiorentino (attivo fin dal 1886), Reggio Emilia (1892), Napoli (1923) e Barcellona Pozzo di Gotto (1925) furono le sedi che accolsero i  Manicomi Criminali del Regno d’Italia (gli stessi che ancor oggi sono attivi come Ospedali Psichiatrici Giudiziari).
   In realtà i Manicomi Criminali  non si dimostrarono mai strutture propriamente sanitarie, ma furono luoghi per la contenzione punitiva della follia criminale o, semmai, deposito di irrecuperabili, rifiutati dai manicomi e dalle carceri. La differenza tra carcere e luogo di cura fu pertanto inesistente.
   Il Codice Rocco, entrato in vigore nel 1930 apportò significative modifiche al sistema manicomiale giudiziario ed al tempo stesso, seppur con ritardo considerevole, recepì le istanze positiviste. Ai sensi dell’art. 45 del c.p. risultava infatti che:
Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile. E’ imputabile chi ha capacità di intendere e di volere.
   Inoltre, l’art. 88 dello stesso c.p. recitava  che:
non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere o  di volere.
   Il Codice Rocco indicava come non in grado di intendere e di volere i minorenni con meno di 14 anni (dai 14 ai 18 anni il Giudice doveva invece valutare caso per caso), i sordomuti, coloro che erano in preda ad ubriachezza o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti e coloro che erano affetti da malattia mentale. L’aver agito in stato emotivo e passionale non rientrava nei criteri di non punibilità. L’uso di alcool e stupefacenti comportava la non imputabilità in caso di fortuita assunzione o di cronica intossicazione, ma non in caso di assunzione abituale o volontaria o preordinata per commettere il reato.
    In caso di proscioglimento veniva stabilito il ricovero dell’imputato in Manicomio Giudiziario per un tempo non inferiore ai due anni, mentre nei casi in cui fosse stato previsto l’ergastolo, la durata minima della permanenza non doveva essere inferiore ai 10 anni.
   In tal modo la persona prosciolta per reati di minima entità subiva un trattamento detentivo maggiore in Manicomio Giudiziario. Al contrario, colui che veniva prosciolto per gravi reati, evitava l’ergastolo e  subiva un numero minore di anni di custodia in  Manicomio Giudiziario. Questo spiega il tentativo, spesso ricorrente, da parte della difesa di molti imputati per gravi reati, di far riconoscere una infermità mentale per mitigare o per far differire la pena.
    L’internamento in un Manicomio Criminale, preferito dagli avvocati difensori per la minore durata della pena per i reati più gravi, in realtà non è sempre stata una soluzione ideale. La segregazione era, al tempo stesso, carceraria e manicomiale. Per i veri malati non offriva un percorso terapeutico e riabilitativo efficace, mentre per gli eventuali simulatori rischiava di essere un’esperienza assai più esasperante della pena prevista.
   Ancora oggi, nonostante la Legge 180 del 1978 che aboliva le strutture manicomiali, esiste l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario che, seppur mitigato dalle disposizioni di legge del 1975, è operante  nelle stesse sedi dei Manicomi Criminali preesistenti.
     La perizia psichiatrica costituisce quindi ancor oggi il cardine del procedimento giudiziario qualora venga adombrata l’ipotesi dell’incapacità di intendere e di volere dell’imputato al momento del compimento del reato. La diagnosi psichiatrica è però l’epicentro del problema. A differenza delle malattie neurologiche, la cui diagnosi nel corso del XX secolo, è stata facilitata dall’avvento di numerose metodiche diagnostiche d’immagine (TAC, RMN, scintigrafia ed angiografia cerebrale etc.) e di registrazione funzionale (elettroencefalografia, elettromiografia etc.), le malattie mentali non hanno potuto usufruire di metodiche strumentali efficaci per oggettivare la loro eziologia e patogenesi. In realtà la figura dello psichiatra negli ultimi decenni ha avuto una notevole crescita clinica ed intellettuale ed oggi la diagnosi di malattia mentale, avvalorata da scale di valutazione e metodi statistici, appare sempre più realistica ed attendibile. Il metodo fondamentale per identificare la malattia mentale è però rimasto, come ha osservato un illustre studioso, “ciò che la mente di un medico può pensare della mente di un paziente”.

Marcello Mazzoni

* Segnalibro al volume Elso Simone Serpentini: QUATTRO COLPI ALLA SCHIENA (Il processo Rina Cosmi, 1948), Collana "La Corte ! Processi celebri teramani", vol. n. 12), Il Cittadino libri, 2004.

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