Vincenzo Serpentini

    

    Vincenzo Serpentini era nato a Castagneto, una frazione di Teramo, il 3 aprile 1832 e, quando fu richiamato alle armi nell’esercito borbonico, raggiunse Napoli a piedi e fu arruolato nella 5a Compagnia del 10° Battaglione Cacciatori, comandato nel gennaio del 1860 dal maggiore Luigi Capecelatro, che rimase di stanza in Abruzzo utilizzato come colonna mobile. All’avvicinarsi dei garibaldini al Volturno, il battaglione fu spostato nella zona del fiume, adibito a compiti di vigilanza delle sponde, con funzione anche di avamposto, e poi assegnato alla brigata posta sotto il comando del colonnello Vincenzo Polizzy, che, insieme con quella comandata dal brigadiere Gaetano Barbalonga, aveva il compito di attaccare i garibaldini lungo una delle due direzioni previste dal piano strategico, il cui comando era stato affidato al generale Gaetano Afàn de Rivera. Le due brigate, che contavano complessivamente 8.000 uomini, avrebbero dovuto puntare contro Sant’Angelo in Formis. La seconda direttrice d’attacco puntava verso est, contro Maddaloni e in direzione di Caserta, e prevedeva l’impiego di altri 8.000 uomini al comando del generale von Mechel, mentre altri 4.000 uomini costituivano la riserva, composta da quattro battaglioni Cacciatori al comando del generale Colonna e schierata lungo il Volturno, da Capua a Caiazzo.

 

     Già dalla sera precedente, Giuseppe Garibaldi, grazie alla delazione di ufficiali borbonici traditori, era a conoscenza dei piani del nemico, pertanto la battaglia del Volturno iniziò poco prima dell’alba di lunedì 1° ottobre 1860 sotto cattivi auspici per le truppe napoletane, che alle tre e mezza uscirono da Capua per assalire il nemico al grido di "Viva 'o Re!". Quando il 10° Battaglione Cacciatori, di cui faceva parte come fante di prima linea Vincenzo Serpentini, alle cinque del mattino diede l’assalto alle posizioni fortificate di Sant’Angelo in Formis, si trovò sotto il fuoco micidiale di una batteria di otto cannoni, che Garibaldi aveva schierato nei pressi della casina Longo, rifornita dai marinai inglesi della fregata “Renown”, ferma a Castellammare. Fu impossibile resistere e, pur coprendosi di gloria (rimasero sul terreno 41 caduti, tra i quali il capitano Cardito, e 61 feriti, tra i quali, piuttosto gravemente, lo stesso comandante Capecelatro) il 10° Cacciatori dovette ripiegare, lasciando ad altri battaglioni il compito di tentare una nuova avanzata. Vincenzo Serpentini scampò miracolosamente alle cannonate e alle fucilate e non risultò né tra i caduti né tra i feriti. Il maggiore Capecelatro fu trasportato in gravi condizioni a Capua e il comando venne assunto dal maggiore Bosco. La brigata Polizzy riuscì qualche ora dopo a conquistare tutte le posizioni di Sant’Angelo, con l’appoggio della brigata Barbalonga, ma, nonostante questo successo, le sorti della battaglia del Volturno volsero a sfavore dell’esercito borbonico. Risultarono determinanti molti errori strategici, l’inettitudine mostrata dal comandante Afàn de Rivera (che risultò a lungo irreperibile con tutto il suo stato maggiore), e le non poche defezioni di ufficiali, fra le quali quella del comandante del 9° Battaglione Cacciatori, il maggiore Giuseppe Scappaticci, cinquantenne di Gaeta, che, lasciati i suoi uomini senza guida, si rifugiò a Capua. Alle cinque del pomeriggio il maresciallo di divisione Ritucci fu costretto ad ordinare la ritirata generale. Le truppe napoletane rientrarono in ordine nei loro alloggiamenti di Capua.

      La battaglia del Volturno, la più grande di tutta la campagna del 1860-61, era terminata. Il costo per gli invasori era stato di 3.423 uomini: 506 caduti, 1.528 feriti, 1.389 fra prigionieri e disertori. Le perdite napoletane erano state poco più gravi, 3.735 uomini, di cui 308 caduti, 820 feriti e 2.507 prigionieri. I napoletani non erano riusciti a sfondare il fronte, per cui la vittoria, seppur difensiva, era dei garibaldini. Erano stati i battaglioni Cacciatori, mostrandosi all’altezza della loro fama, a salvare l’onore delle truppe borboniche, che approntarono la loro ultima linea di difesa a Mola di Gaeta e qui, il 4 novembre 1860, ebbe luogo l’ultima grande battaglia campale tra l’esercito delle Due Sicilie e quello piemontese. Ancora una volta il 10° Battaglione Cacciatori, di cui faceva parte Vincenzo Serpentini, fu protagonista, sempre aggregato alla brigata Polizzy. Si affrontarono 20.000 soldati borbonici e 18.000 piemontesi, che usufruirono di un violento bombardamento dal mare delle navi sabaude, poste sotto il comando dell’Ammiraglio Persano. Anche qui il 10° Battaglione Cacciatori si distinse per una intera giornata  per il suo grande eroismo e per una serie di assalti all’arma bianca, ma alla fine dovette ripiegare, come tutte le altre truppe, verso Gaeta. Fu richiesto però ai cacciatori del 10° un ulteriore eroico sacrificio, perché fu schierato di retroguardia, mentre il grosso dell’esercito borbonico ripiegava verso Gaeta, e sostenne un duro scontro contro l’avanguardia delle  forze nemiche, che avanzava in numero preponderante. Fu quello l'ultimo combattimento in campo aperto tra borbonici ed esercito sabaudo, uno scontro cruento e combattuto con tenacia e valore da entrambi gli avversari. Le perdite fecero registrare al termine della giornata, tra morti, feriti e dispersi, circa 150 unità per ciascuna parte avversa.

      L’eroica quanto vana resistenza, consentì al grosso dell’esercito borbonico di riparare nel forte di Gaeta, mentre i cacciatori del 10° Battaglione si accamparono, sempre con funzione di retroguardia, sull’istmo di Montesecco e poi furono piazzati in avamposto fuori Gaeta, nei pressi di Santa Maria della Catena, dove il 12 novembre difesero strenuamente la posizione dall’assalto piemontese, fino a che non arrivò anche per loro l’ordine generale di rifugiarsi in città. Cominciò così l’assedio di Gaeta, al quale il 10° Battaglione prese parte sotto il comando del maggiore Del Giudice, proveniente dal 9° Cacciatori.

      Durante l’assedio, l’11 gennaio 1861, Vincenzo Serpentini, promosso nel frattempo caporale, fu ferito e ricoverato per alcuni giorni in ospedale, ma nel 10° Battaglione si ebbe le perdita del capitano Pecorella e dell’alfiere Luigi Tizzoni. Il 13 febbraio l’assedio di Gaeta terminò con la capitolazione. Negli ultimi giorni alcuni pezzi di artiglieria del nemico erano stati fusi ed erano stati realizzati degli anelli distribuiti a ciascuno degli assediati. Anche Vincenzo Serpentini ne ebbe uno, che conservò poi per tutto il resto della sua vita. Questi anelli furono trovati negli anni seguenti alle dita di non pochi dei briganti catturati o ammazzati durante una feroce opera di repressione. Tutti gli assediati di Gaeta furono tenuti prigionieri e trasferiti in varie isole napoletane, Vincenzo Serpentini finì a Procida. Fu poi liberato, come tutti gli altri, solo dopo la caduta della fortezza di Civitella del Tronto e, a piedi, come aveva fatto andando a Napoli quando era stato arruolato, tornò nel teramano. Si sposò con Raffaella Casaccio ed ebbe molti figli, fra i quali Simone, primo dei maschi, e Francesco. Nonostante i tanti inviti ricevuti da ex commilitoni, non volle mai entrare a far parte di bande di briganti, che compirono alcune scorribande anche nei dintorni di Castagneto, ma probabilmente fornì loro in non poche occasioni ricovero e vettovaglie.

      Morì a 87 anni di età il 31 maggio del 1919 e finché visse si recò ogni giorno nella chiesa di Castagneto, con il suo anello al dito, trattenendosi per qualche minuto in preghiera, facendo voti per il ritorno sul trono del suo Re e della sua Regina. In queste occasioni non pochi ebbero modo di sentire che si rivolgeva ad alta voce al Gesù in Croce esposto sopra l’altare, dicendo: “Fàmmele arcurdà sta Nazejòne”. Inutile precisare che per lui “Nazejòne” non era il Regno d’Italia, ma il Regno delle Due Sicilie. Onore e gloria a chi ha fatto l’Italia (e ho scritto una biografia su Enrico Sappia, che contribuì a farla come cospiratore e agente segreto di Mazzini), ma onore anche a chi fu sconfitto, come quel mio bisnonno, Vincenzo Serpentini, al quale, quando chiese alla nuova Italia di ottenere una pensione di guerra, fu risposto che non gli spettava, avendo fatto parte “del disciolto esercito nemico”.

       Da Simone nacquero nove figli. Il primo si chiamava Raffaele, nato nel 1910. Il secondo, Vincenzo, nato nel 1912, ebbe tre figli: Elso Simone, Emilia e Franco. Il terzo, Giustino, nato nel 1914, morì nell'agosto 1943 in guerra.